… Perciò, data la ciucca, fummo accompagnati, Fenaroli e io, in stazione dalla comitiva di amici che aveva cenato con noi dal grande Passalacqua, allora non ancora conosciuto come “l’Etrusco”. Colpa certo del Chianti, ma il popolo ci salutò come se dovessimo partire per l’America e mai più tornare. In verità, come già detto, andavamo a Parigi una settimana con il pretesto del Festival del Cinema Fantastico. Il pretesto, va precisato, era tale al 100% solo per il Fen. Io, notoriamente, sono un appassionato del genere e nel corso degli anni ho fatto persino da giurato a Sitges, in Spagna, Ma in quell’occasione lo scopo – in sottotraccia – della vacanza era un po’ diverso e, forse, un po’ più sordido.
Sorvoliamo sul penoso viaggio in cuccetta da Alessandria a Parigi. Due ubriachi non hanno bisogno di approfondimenti. All’arrivo, in mattinata, prendemmo la metropolitana alla volta di Rue de Rivoli, dove il Fen aveva prenotato un albergo. Ovviamente non l’albergo messoci a disposizione da Monsieur Schlockoff, quello era una fantasia da usare come paravento per le nostre signore a casa. Ma un albergo scelto, con cura, da Carlo.
Adesso occorre che lo ricordi. Il Fen è nativo di Genova. Nel suo DNA circolano pure geni scozzesi ed ebraici. Sì, so bene che sono dei pregiudizi persino razzisti. Ma è un dato di fatto che l’uomo, nelle sue scelte di vita, ha sempre teso all’ottimizzazione secondo il teorema “meno spendi, meglio è”. Così, quando giungemmo, in loco, all’albergo che lui aveva prenotato, ci trovammo di fronte al lupanare più scalcinato di tutta Parigi. Una volta dentro, rimpiangemmo l’esterno. Gestione nordafricana (niente da eccepire, ma quelli non parlavano neppure il francese), un tanfo aleggiante ovunque che era un misto di sudore, orina e cous cous. I corridoi per accedere alle camere apparivano a misura di una sola persona – in due non ci passava se non scavalcandosi. Il viavai della varia umanità che alloggiava offriva un rumoroso campionario di prostitute, trans, nani viventi da giardino, gangster in pensione. La nostra camera sembrava il set di un film di David Lynch: drappi rossi alle pareti e lenzuola piene di peli altrui che sbattemmo all’aperto, dopo avere aperto a fatica una finestra.
Siccome in treno non avevamo chiuso occhio, dormimmo qualche ora e venne sera. Giusto l’ora per portarci al cinema teatro Grand Rex. In pieno centro, dalle parti dell’Arco di Trionfo. Giunti sul boulevard con il metro una mezz’ora prima delle proiezioni (comprendenti un primo film, un corto e un secondo film), cozzammo contro una marea umana di circa 2000 persone in disciplinata fila davanti alle biglietterie. Lo scoramento si dipinse sul volto del Fen e io, che non faccio code per principio, lo consolai ricordandogli che possedevo l’accredito di giornalista. «Sì, accidenti, ma è dell’anno scorso. Se se ne accorgono, ci tocca fare questa fila tremenda!». Gli risposi di star tranquillo e di seguirmi. Raggiungemmo con sicurezza ostentata l’ingresso privilegiato dei giornalisti e degli addetti stampa e mostrai la tessera a un essere in divisa color porpora. Lui mi sorrise, guardò la foto e ci fece un gesto con la mano per invitarci ad entrare. Percorremmo un po’ di metri e, giunti in una piccola hall, c’imbattemmo in una graditissima quanto necessaria (per noi) sorpresa: Alain Schlockoff, da perfetto anfitrione, aveva preparato un grandioso ricevimento di benvenuto per gli addetti ai lavori in perfetto stile di quel che oggi si chiamerebbe “aperitivo lungo”. Salatini, salatoni, baguette con affettati, cibarie di ogni tipo, e bevande dal repertorio illimitato.
Circondati dal bel mondo parigino in perfetta tenuta da sera e noi due non tanto perfetti ma neppure straccioni, si scatenò da parte nostra la furia vorace dell’affamato con predilezione affatto censurata per baguette riempita all’inverosimile di salame. Insomma, un’orgia mentre il mondo attorno a noi “assaggiava” giusto per rispettare il copione. Dopo una mezza dozzina (a testa) di calici di champagne, ci sentimmo in dovere di andare a salutare Alain Schlockoff, anche per qualificarci come giornalisti italiani in missione per “Il Piccolo” di Alessandria, non molto credibile peraltro… Al Fen, un pochino brillo, venne in mente, mentre gli stringeva la mano, di chiamarlo “Monsieur Cocotte” e io fui costretto ad appioppare un calcio negli stinchi all’amico. Anche perché attorno a noi scorgevo anche qualche volto a me noto (dal regista Pete Walker alla statuaria Caroline Munro, Camille Keaton e altri ancora in voga nell’epoca) e, insomma, non era il caso di esagerare sul fronte della spiritosaggine. Però, insomma, la faccia di Schlockoff, quando si sentì appellare come signor “Malafemmina” per capirci, fu proprio impagabile. Alla prossima…