di Ettore Grassano. Sì, va beh, ma che fine hanno fatto l’economia, e il Paese reale? Per quanto tempo saremo in grado di reggere questo clima di incertezza politico istituzionale, in cui non si sa se avremo un governo e quando, e soprattutto in grado di fare cosa?
Dal mondo del lavoro arrivano segnali non di crisi, di più: di vera e propria emergenza ormai strutturale e degenerativa. A cominciare dall’insolvenza del sistema di pagamento pubblico (lo Stato e le Regioni: con il Piemonte a vantare una triste leadership) che le nuove normative europee non hanno minimamente scalfito, e che richia di far affondare tutto quel po’ di ecomomia sana rimasta in circolazione, ad esclusione dell’isola felice, e speriamo duratura, di chi vive in tutto o in gran parte di export.
“Un atteggiamento del genere – segnala l’economista Mario Deaglio su La Stampa di ieri – rischia di distruggere in poche settimane il risultato di un anno e più di sacrifici: l’Italia ha riacquistato credibilità ma deve prendere a prestito quasi un miliardo di euro al giorno solo per rifinanziare il debito in scadenza, un’operazione che già è ridiventata sensibilmente più cara”. Sulla credibilità si possono avere opinioni francamente anche diverse, o ritenere che Deaglio (marito e suggeritore del ministro Fornero, club Monti e dintorni) confonda credibilità con appartenenza al salotto buono della finanza internazionale. Però è indubbio che l’allarme è reale, e che l’Italia ha bisogno, immediatamente, di una politica economica vera, decisa, e che abbia un certo respiro, e non sia ondivaga. Facile a dirsi, lo so, ma assai meno agevole passare ai fatti. Però le attività chiudono o resistono aperte in perdita (ma fino a quando? E ha senso per chi si è messo da parte un gruzzolo, piccolo o grande che sia, giocarselo solo per non alzare bandiera bianca?), e nella nostra provincia solo una minima parte delle 46 mila aziende esistenti (la maggior parte individuali naturalmente, o con uno o due dipendenti) ha effettuato qualche forma di investimento nel 2012, o intende farlo quest’anno.
Si resiste in trincea insomma, sulla difensiva ma incapaci di mettere a punto una vera strategia: a cominciare, appunto, dal sistema Paese.
L’altro giorno un lettore di questo blog (e magazine) lanciava un’analisi suggestiva: ad Alessandria e dintorni il comparto pubblico non va smantellato o ridimensionato, perché in realtà è l’unico vero tessuto “industriale” esistente, essendo noi una terra in cui l’industria privata praticamente non c’è più. Un’estremizzazione, ma su cui provare a riflettere. Perché la prima cosa da chiedersi, naturalmente, è: sì, ma cosa produce o potrebbe produrre questo sistema “industriale” pubblico?
Più servizi e di maggior qualità per i cittadini, o solo posti di lavoro? E ha senso conservarlo così, o pensare ad una rete di servizi e attività comunque in mano pubblica, ma appaltati a privati? Ma, soprattutto: signori, chi paga?