Quando Alberto Moravia (al secolo Alberto Pincherle) pubblicò “Gli Indifferenti” era pienamente consapevole di star compiendo un atto letterario forte: la scelta delle tematiche e dei modi tipici della Tragedia classica è direttamente dettata dal desiderio di portare alle stampe una grande opera; ciò che della Classicità manca è la nobile grandezza, che cede di fronte alla noia e al dubbio.
Tutto quanto Alberto Moravia avrebbe scritto anche in seguito sarebbe stato cosí: il racconto dell’infelice ipocrisia dell’aridità, il piú crudo e austero pronunciare del quotidiano disteso in una forma consapevole ed eminentemente letteraria.
Le vicende biografiche non sono legate che in maniera complessa e indivinabile al formarsi di un intelletto; pure, alle volte è suggestivo citare qualche fatto per meglio concentrarsi sull’evoluzione di un certo tipo di sensibilità. Su Moravia, varrà la pena di citare la tubercolosi ossea che in giovanissima età lo costrinse a sostituire le attività della vita adolescenziale con altre piú sedentarie: che nel suo caso furono, per esempio, la lettura di Dostoevskij e Proust.
La cultura profonda e composita che questa dedizione totale alla lettura in giovinezza gli aveva garantito fu tra le prime ispiratrici dell’impianto architettonico del suo primo romanzo (e nell’ottica di cui sopra si potrà magari ricordare come suo padre fosse un architetto): la struttura a blocchi tipica della tragedia, qui posta al servizio del meschino dramma della decadenza borghese.
A trentaquattro anni si sposò con Elsa Morante, dalla quale si sarebbe poi separato ventuno anni dopo.
Di costei si tende a dimenticare la grande poliedricità, ad esempio per quel che riguarda il suo legame col Cinema: per film di Pasolini e Zeffirelli, scrisse parole per canzoni e lavorò come autrice di colonne sonore e come aiuto-regista; ebbe una tormentata relazione con Luchino Visconti; fu fruitrice per un certo periodo di droghe allucinogene.
I suoi romanzi e i suoi racconti si confrontano a loro volta col racconto della tragedia: dal melodramma di “Menzogna e sortilegio” al dramma di “Aracoeli”, passando per il meraviglioso “L’isola di Arturo” e per il celeberrimo “La storia”.
Nel 1961, Elsa Morante partiva per un viaggio in India in compagnia di suo marito Alberto Moravia e dell’amico Pier Paolo Pasolini. I due uomini ne avrebbero riportato ciascuno un proprio réportage, entrambi molto interessanti; manca, invece, il libro indiano della Morante: ed è un peccato.
Per quanto il resoconto di Moravia è filtrato da un occhio culturale raffinato, quello di Pasolini è limpido e aperto al racconto delle cose incontrate: per Moravia è piú che altro la propria esperienza di viaggiatore verso l’India e in India ad essere interessante.
La scrittura di Pasolini è sempre invece notevole per questo freddo nitore, per la solida necessità di ogni parola: è una scrittura sempre lucida e chiara, precisa.
Quello di Pasolini (che nei film arrivò anche a confrontarsi con i grandi drammi dell’Atene classica) è un occhio ancora diverso sulla tragedia: una tragedia che non agisce tanto sulle strutture narrative o psicologiche, ma direttamente sulle cose che succedono e sulla terribile lucidità dell’occhio sul Mondo.
Ma in tutti e tre si può leggere quella che è stata la tragedia grande di tutto il Novecento e che allignava fin dalla Seconda Rivoluzione Industriale e dalla seconda sconfitta dell’imperatore Napoleone: la presa di coscienza definitiva della differenza totale fra le cose e l’Idea delle cose.