Fuoco fatuo [ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1A cura di Angelo Marenzana

 

 
Il brano presentato per la nostra lettura domenicale è tratto da “Fuoco Fatuo” di Alberto Büchi, un romanzo romanticamente macabro che si situa all’incrocio di diversi generi letterari passando dal fantastico all’horror con atmosfere surreali che ricordano i film di Tim Burton e Il Profumo di Patrick Süskind.
L’autore nasce a Milano nel 1978 e si laurea in Economia e Commercio nel 2002. Dopo pochi mesi si trasferisce a Londra per frequentare la New York Film Academy. In Inghilterra impara le tecniche narrative cinematografiche e soprattutto il mestiere di filmmaker, che svolge fino al 2012. Parallela e costante è la passione per la scrittura, preferendo in particolar modo il genere weird e horror, a cui appartengono i suoi racconti. Ha anche lavorato come ghostwriter e collabora con Libraria Editrice per la revisione di testi classici.

Il romanzo L’Eroe delle Terre Morenti (NeroPress, 2015) è uscito negli Stati Uniti col titolo Frontier Wanderer (Caliburn Press/Siento Sordida, 2015).

Fuoco Fatuo (pubblicato da AlterEgo Edizioni nel 2016) racconta di Gianbattista, Fuoco fatuo [ALlibri] CorriereAl 1un ragazzo fuori dal comune che, fin dalla nascita, non sente il dolore fisico e non prova emozioni. Orfano di madre, viene cresciuto dal padre, custode di un cimitero di campagna, che non è però in grado di educarlo ai sentimenti. Ma il ragazzo vuole imparare a conoscerli e per farlo osserva le reazioni emotive delle persone cui causa di proposito dolore, fisico e morale. Per acquisire “conoscenza” non si ferma di fronte a nulla, neanche davanti al male assoluto. Il mondo e le emozioni umane, però, si rivelano più complicati di quanto possa immaginare e Gianbattista rimane inebriato, poi stordito e infine travolto da ciò che scopre, compreso il grande amore per una ragazza. Naturalmente con un finale inaspettato.

 

 
Fuoco fatuo [ALlibri] CorriereAlA mio padre piaceva molto il cimitero di notte durante l’estate. Guardarlo da lontano quando diventava una parte del panorama. Da lontano, perché una delle sue tante regole mi vietava di camminare tra le tombe col buio.
Uno dei ricordi più vecchi mi riporta a una notte con lui. Avevo circa sette anni. Faccio sempre confusione quando devo dire la mia età. Mio padre non festeggiava i compleanni e non capiva perché io lo dovessi fare. Non mi mandava nemmeno alle feste dei compagni a cui venivo raramente invitato. Non mi è mai dispiaciuto rinunciarci.
Ci trovavamo, come altre volte, in cima al piccolo promontorio che incombeva sul cimitero, seduti sulle nostre sedie di legno dipinto che portavamo con noi dalla cucina. Era una notte d’estate e mio padre aveva sgobbato tutto il giorno per preparare le fosse di un’intera famiglia di poveracci morta in un incendio pochi giorni prima. Tra i morti c’era anche un bambino di pochi mesi. Per il caldo, aveva imprecato in dialetto tutto il tempo ma alla fine, col fresco, si era calmato.

Da quel punto elevato si poteva ammirare lo spettacolo del cimitero di notte. Mio padre, come sempre, era rimasto incantato. Il sangue raggiungeva la prugna che aveva al posto del cuore e la faceva battere.
Centinaia di lumini, quelli dei ceri di fronte alle lapidi o dentro le tombe di famiglia, punteggiavano irregolarmente il nostro parco personale.
Abitavamo nella casa del custode dentro il campo santo, di proprietà del comune, e mio padre, una volta chiuso il cancello dopo l’orario di chiusura, diventava un ricco signore di campagna che ammirava il proprio parco sgranocchiando noci o arachidi. Ne era ghiotto.

Era un bel cimitero, molto antico, pieno di alti cipressi e piantine sempreverdi. In primavera diventava persino colorato, e quasi profumato, grazie ai fiori che i visitatori lasciavano sulle tombe: garofani e crisantemi, margheritine, lilium, ciclamini e persino qualche rosa. Di notte e da lontano, però, i fiori non si distinguevano. Rimanevano solo le sagome scure degli alberi e delle statue, i contorni squadrati delle tombe più grandi e le luci baluginanti.

A me, a dire il vero, lo spettacolo lasciava indifferente ma c’era una cosa… una delle poche cose della mia vita che trovavo bella: i fuochi fatui. Erano azzurri, raramente verdognoli. A volte apparivano come lumini svolazzanti, tipo gli insetti, leggeri come i pezzi di carta bruciata in balìa del vento; avrei tanto voluto averne uno tutto per me, anche a costo di catturarlo con un retino per le farfalle. Altri invece si manifestavano come nebbioline colorate, onde dai contorni sfumati e sospese a qualche centimetro da terra oppure a contorno degli ornamenti funebri. Il cimitero si colorava in quel modo solo di notte e spesso sospettavo che solo io e mio padre potessimo vederlo così.

Il silenzio della pace eterna di quella notte con mio padre veniva rotto solo dallo scrocchiare delle noci sotto i suoi denti marci oppure dal rumore dei gusci che rompeva a mani nude, due a due. Accanto alla sedia aveva poggiato la vecchia lampada a olio, che emanava una fioca luce giallognola, e un fiasco di vino rosso. Barbera.
Ad un certo punto pronunciò il mio nome con il solito tono secco e severo: «Gianbattista!».
Mi voltai di scatto perché era solito chiamarmi con un semplice ragazzo.
In un primo momento pensai che volesse rimproverarmi di qualcosa.
Aveva due modi di parlare, oltre a quello del rimprovero: quello delle imprecazioni in dialetto e quello dell’insegnamento.
«Figlio…».

Fece una pausa durante la quale si mise in bocca una noce.
«Non ti ho mai raccontato di tua madre».
«Ho una mamma?».
«Stupido, tutti hanno una madre, ma la tua è morta».
La rivelazione mi lasciò indifferente.
Mio padre proseguì: «Vai a scuola e studi. Tra poco sarai più colto di me, per cui è giusto che tu sappia com’è morta».
Il ragionamento non faceva una piega.
«Tua madre è morta dandoti alla luce. Soffrì molto, ebbe un travaglio di due giorni e urlava come un maiale quando capisce che lo stanno per sgozzare. Hai mai visto sgozzare un maiale?».
«No».

«Ti ci porterò un giorno», ruppe un guscio e mangiò un’altra noce. «Tua madre soffrì molto e durante il travaglio mi rivolse parecchi insulti rinfacciandomi d’averla messa incinta. Stanco delle offese decisi allora d’uscire di casa per scavare qualche fossa e portarmi avanti col lavoro». Un pensiero improvviso bloccò ancora il suo discorso. Alzò un sopracciglio, mi guardò e puntualizzò: «Non per lei. In generale. Non sapevo che sarebbe morta».

Osservai mio padre e mi chiesi come facesse a tenere la schiena così dritta sulla sedia. Io, invece, non toccavo nemmeno terra coi piedi.
«Alla terza fossa mi sentii stanco e mi fermai. In quel momento si sentì un grido più forte degli altri e capii che era giunto il momento. Decisi di tornare dentro casa e ti trovai già fuori dalle viscere. Dalle gambe di tua madre usciva sangue a fiotti. Eri brutto, sai? Sporco di sangue, pieno di rughe e avevi un disgustoso pezzetto di cordone attaccato alla pancia. Eri lungo come il salame che abbiamo comprato l’altro giorno al mercato».
Con le mani mi fece vedere la lunghezza.
«Andai da tua madre che mi disse, o meglio biascicò, una cosa che non dimenticherò mai e che non dovrai mai dimenticare nemmeno tu. “Ho sofferto tanto”, mi disse, “Non voglio che nostra figlia soffra così. Ho preso il suo dolore, la nostra bambina non proverà mai dolore”».
Mi guardò increspando la fronte e commentò laconicamente: «Quella donna non aveva capito che eri maschio! Fatto sta che prese il tuo dolore e questo la fece morire. Fu troppo… il suo dolore, il tuo dolore…».
Raccolse con la lingua i pezzettini di noce che aveva lasciato tra la gengiva e la guancia per parlare e deglutì.
«Ecco ragazzo. Ora sai che tua madre è morta per il troppo dolore, ed è per questo che tu non ne provi. Io purtroppo pensai che stesse delirando e capii le sue parole solo qualche anno dopo».
Allungò la mano e prese il vino. Bevve un lungo sorso e poi cambiò discorso.
«Fammi vedere il disegno di oggi».

Presi il quaderno e glielo porsi. Linee e colori erano pasticciati ma il concetto c’era.
«Mmm, fa schifo! L’importante però è che ti ricordi che se una vipera ti morde l’alluce tu devi correre da un dottore prima che il piede ti diventi uno zampone. Chiaro? Oppure ti fai una bella incisione sopra il morso per far uscire il veleno col sangue… anche se vedi solo due buchini nella pelle! Mai sottovalutare il veleno».
«Sì», risposi guardando il mio piede.
Quel pomeriggio, nel bosco dietro il cimitero mi ero imbattuto in una vipera spostando un sasso. Non mi aveva morso ma mio padre andò su tutte le furie quando glielo raccontai.
Mi restituì il quaderno e indicò il cimitero.
«Guarda. Sembra che le stelle del cielo continuino sulla terra dei morti». Si riferiva puntini tremolanti dei ceri e ai fuochi fatui.

Io però non guardavo il cimitero ma più in alto, molto più in alto, e d’improvviso vidi un fuoco fatuo che aveva appena segnato il cielo con una scia luminosa.
«Una stella cadente», commentò mio padre che aveva anch’egli rivolto l’attenzione al cielo appena in tempo.
«Sembrava un fuoco fatuo quando si spegne», osservai. Ma non ricevetti commenti.
Dopo una breve pausa di riflessione riprese il rumore delle noci masticate; a cui seguì il rumore del vino che scendeva nella gola; a cui seguì quello di un piccolo rutto.
Io scrutavo il cielo perché volevo vedere un’altra stella cadente.
«Sono curioso di assaggiare questi anacardi», disse d’un tratto mio padre. Prese un piccolo sacchettino ed estrasse un oggetto dalla forma strana.
«Sembra un rene», osservò ficcandoselo in bocca.

A me invece venne da fargli una domanda: «Papà… cos’è il dolore?».
Probabilmente mio padre si era preparato già da tempo la risposta perché parlò senza esitazioni o borbottii. «Immagina il dolore dell’anima… mmm per esempio quando i compagni di scuola non vogliono giocare con te perché puzzi di morto, e poi immagina che l’anima sia fatta di pelle e carne. Ce la fai a immaginare tutto questo?».
Dava per scontato che avessi chiaro cosa fossero le emozioni e i sentimenti.
Non risposi ma pensai ad una cosa: quando i compagni dicevano che puzzavo di morto, io non provavo nulla. Niente rabbia, non trovavo motivo per rimanerci male.
«Il dolore interiore è il più doloroso e dura più a lungo. Io lo so bene grazie al lavoro che faccio. Ho visto tante persone… cosa spinge una persona a tornare a vedere una lapide anche tre, quattro volte alla settimana se non il dolore della sua anima?».
Io mi grattai la testa, e poi il piede. Il paragone non fu molto efficace proprio perché mio padre non capì mai fino in fondo che avevo le idee molto confuse sui sentimenti. L’anima non sanguina, era impossibile che li capissi.

«Nessuno in paese deve sapere che non provi dolore. Questo te lo ricordi?».
«Sì, papà».
«Se lo sapessero ti brucerebbero». Non perdeva occasione per ripetermelo.
Tossì e il respiro gli si fece affannoso.
«Bruciare fa male!», esclamai diligentemente.
«Certo, fa molto male», borbottò. Poi espose un anacardio alla luce della lanterna.
«Buoni questi anacardi a forma di rene. Ora però me andrò a letto. Sento la gola che mi brucia e la lingua gonfia. Il vino non mi calma il fastidio. Non vorrei che mi stesse venendo un raffreddore».
«Ho sonno, papà».
«Bene, allora prendi la sedia e andiamo. Il panorama ci sarà anche domani sera, se non piove».
Non mi parlò mai più in questo modo.