Anche per colpa (o merito) del concorso dei gruppi beat alessandrini di cui ho raccontato la settimana scorsa, venne a formarsi un gruppo che si chiamava I Leons, di cui entrai a far parte come bassista. Già loro giravano la ristretta provincia col nome di Ramarri, ma la partenza per il militare di Franco Torgani, cantante e bassista ufficiale, fece sì che io venissi chiamato a sostituirlo.
Se a qualcuno poi interessano sul serio le vicissitudini dei complessi beat e rock degli anni ’60, ricordo l’esistenza dei bellissimi volumi di Noi e la musica, prodotti dall’inossidabile duo Franco Rangone/Ugo Boccassi.
Come Leons, eravamo in quattro: io, il batterista Mario Torgani (fratello del milite), Adriano Picardi alla chitarra detto “Erode” per una presunta rassomiglianza con lo sterminatore dei primogeniti ed Ermanno Ricci alle tastiere. Suonavamo tanto, in giro qui e là, e alle soglie dell’estate ’67, ci fu offerto di suonare alla Festa della Rugiada a Valmadonna, indimenticabile tradizione ballereccia delle nostre zone. Noi non lo sapevamo ancora, ma quello non era soltanto un buon contratto pagato doppio. In qualche modo stavamo per vivere un’esperienza vitale, una sorta di rito d’iniziazione.
Qualche giorno prima della suonata – rigorosamente il 29 giugno, festa di Pietro e Paolo, ma anche notte esoterica per tanti motivi – ci trovammo in sala prove (via Mazzini…) e qualcuno lesse a voce altra un trafiletto del Piccolo che annunciava la festa: «Giovedì 29 giugno, in occasione della tradizionale Rugiada, le danze inizieranno alle ore cinque e continueranno per tutto il giorno.»
Qualcun altro sentenziò: «Ma che vaccata!», ma il dissenziente venne ridotto al silenzio dalla musica.
Al pomeriggio di mercoledì 28 caricammo la strumentazione, allora sul serio magra, sul pulmino affittato dall’indimenticabile Mignone e in venti minuti raggiungemmo “Le Fonti” di Valmadonna che, come tutti sanno, così si definiscono a causa di intermittenti zampilli di acqua sulfurea e nauseabonda, vicino ai quali qualcuno chissà quando ha costruito una nicchia per l’orchestra. Le consuete operazioni di montaggio vennero svolte in un’atmosfera di allegria esagerata, forse effetto della puzza psichedelica delle Fonti. Poi ognuno a casa propria e appuntamento alle tre e mezza della notte sotto casa di Torgani in Pista.
Alle tre scesi in strada, sotto lo sguardo preoccupato dei miei (perché alla fine avevo 17 anni e quella era un’altra epoca), e inforcai la bicicletta. Possiedo un vivido ricordo, dolorosamente malinconico, di quel tragitto con la città che dormiva nel buio: pedalavo e fischiettavo Bambina sola (la canzone con cui avremmo aperto la festa), con “le strade di notte” alla Giorgio Gaber e il cervello assediato da vibrazioni orgasmiche che ogni buon diciassettenne dell’epoca provava e non soltanto nel cervello. Pedalavo lentamente verso il luogo dell’appuntamento in via Parnisetti, nel silenzio rotto soltanto dal fruscio delle ruote, assaporando il momento più raro e più bello che ci è dato di conoscere nella vita: quello della felicità assoluta, in un perfetto equilibrio di concomitanze che mai più si sarebbero ritrovate in quello stupendo allineamento. L’età, il momento storico felicemente trasgressivo, la musica e i primi sintomi di quello che, nella suburra alessandrina di allora, veniva identificato come Morbo dello Scimmione. Cazzo, non sono mai stato più felice come in quel momento, forse solo la prima volta che ho visto Fabiana. Perché c’erano la notte (quella stupenda notte d’inizio estate che invitava gli uomini a guardarle dentro) e la musica che arrivava da Albione e dagli States: due entità collegate misteriosamente tra loro e collegate soprattutto con me. Allora, circondato dalle tenebre di San Pietro, ne conclusi con convinzione che a volte vale la pena di vivere una vita intera per unico, grande momento. Anche due, se si può.
Quando ci ritrovammo sotto casa di Mario, tutti concordammo sull’arcano fascino della circostanza. La città sembrava giacere silente sotto la coltre di un’aspettativa carica di significati. E mai ci fu dopo allora un’Alessandria tanto ammaliante ed enigmatica.
Sull’auto di Ermanno ci dirigemmo verso le Fonti. Era ancora buio, anche se all’orizzonte già apparivano le luci dell’aurora. Incrociammo e doppiammo un sacco di biciclette con ragazze in minigonna anche loro dirette verso il ballo propiziatorio e il Morbo dello Scimmione colpì tutti all’interno dell’auto in maniera virulenta. Sembravano vergini dirette con consapevole gioia all’altare della deflorazione rituale. Beh, insomma, risuonarono commenti di lega molto più bassa, bisogna ammetterlo…
Alla fine, quando fummo sul palco, alle 04,59 la chitarra distorta di Erode attaccò il riff di Bambina Sola e il nuovo giorno si accinse a cacciare via quella notte che io non avrei mai voluto veder finire.