L’odore acido di quei giorni [ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1di Angelo Marenzana

 

 
Chiudevo l’articolo della scorsa settimana (L’anno dimenticato 1977) citando il romanzo di Paolo Grugni L’odore acido di quei giorni (edito da Laurana), un noir che, nel silenzio editoriale, ha raccontato gli avvenimenti della Bologna di quarant’anni fa. Si tratta di un libro avvincente caratterizzato dalla scrittura diretta e scolpita tipica del suo autore (fra i tanti suoi lavori mi piace ricordare alcuni titoli: Let it be, L’antiesorcista, Italian Sharia, e il più recente Darkland).

Una trama gialla. Un omicidio. Indagini. Elementi che si riflettono nello scorrere della Storia Vera (dagli ultimi giorni di dicembre 1976 fino al fatidico 11 marzo 1977).

Alessandro Bellezza, di ritorno dal suo atipico lavoro – raccoglie carcasse di animali investiti da automobilisti distratti per evitare incidenti stradali – trova il cadavere di una giovane donna. Caricato il corpo sul pick-up per portarlo via insieme a quello delle povere bestie abbandonate sull’asfalto, si accorge che la donna è ancora viva; bloccato da una bufera di neve, Bellezza, ex chirurgo allontanato dalla pratica medica e dagli affetti familiari perché implicato in una vicenda con le Brigate Rosse, è costretto a prestare assistenza in casa propria alla sconosciuta, ferita e apparentemente in preda a un’amnesia.

Ma chi è davvero questa donna? Perché non vuole essere condotta in ospedale? E chi è il misterioso serial killer che uccide le donne sparando loro un unico colpo nella vagina? Ma soprattutto, quanto può essere lunga, la memoria del male subito?

La vicenda, ambientata a San Giovanni in Persiceto, nella provincia bolognese, è L'odore acido di quei giorni [ALlibri] CorriereAl“inserita nel calderone sociale dell’epoca, e narrata in gran parte attraverso l’espediente narrativo delle trasmissioni di Radio Alice, emittente libera che parla di scontri tra studenti e poliziotti, di colpi di pistola che esplodono ai cortei, di violenza e di paura, sulle cui frequenze il protagonista è sempre sintonizzato”.

Proprio da L’odore acido di quei giorni l’estratto domenicale di questa settimana.
Non replicai. Era concentrata, con poca voglia di parlare tra le labbra secche, le mani nelle tasche del giubbotto, la pistola senza sicura in quella destra. Giravamo lentamente tra i presenti. Avevo l’ordine di non staccarmi mai da lei. Nel taschino della camicia avevo infilato un bisturi. Sudavo neanche fosse agosto e feci un balzo indietro quando un tizio con una sciarpa rossa a un paio di passi da me si mise a dire a voce alta che quelle merde di CL stavano discutendo di un articolo di Rocco Buttiglione sugli universitari cattolici e che dentro l’Istituto di anatomia erano circa in quattrocento.

Il corteo si mosse verso il 48 di via Irnerio passando per via del Guasto, noi lo lasciammo defluire e ci mettemmo in fondo. Capii che la rabbia assertiva era giunta alla fine del suo percorso. Quando arrivammo davanti all’Istituto, sentii cinque o sei compagni dire che sarebbero entrati nell’aula per vedere la situazione. Si staccarono poi dagli altri gridando “Barabba libero”.

Pochi attimi e i compagni furono scaraventati prima fuori dall’aula e poi fuori dall’ingresso ad arco. Un paio caddero lungo la breve scalinata. La reazione dei compagni fu immediata e l’aula venne presa d’assalto. I ciellini si barricarono all’interno. Altri si misero in piedi dietro i finestroni. Io e Francesca assistevamo agli eventi leggermente defilati sulla destra, attenti che nessuno si avvicinasse troppo, cercando di capire dove si celasse Levante. Per mezzora le parti avverse si scambiarono slogan e insulti, poi arrivarono cellulari e camionette carichi di poliziotti e carabinieri. I compagni si ritirarono dal giardino antistante l’istituto e si raccolsero sul marciapiede davanti al cancello. Un gruppo di carabinieri entrò schierandosi in giardino e all’ingresso, un altro gruppo partì senza preavviso e caricò manganellando alla cieca i compagni.

Fu il fuggi fuggi generale e in quel finimondo vedemmo per la prima volta Levante. Era appoggiato a una colonna dietro una camionetta dei carabinieri che ostruiva in parte la visuale e ci fissava. Parka verde e viso scoperto che si apriva in un sorriso invitante. Niente parrucca e niente apparecchio ortodontico. Non appena facemmo un passo nella sua direzione, si tirò su il cappuccio e si mescolò ai compagni che scappavano verso porta Zamboni. Difficile distinguerlo, poi partì la prima scarica di fumogeni e lo perdemmo di vista. Francesca mi mise una mano sul petto.
“Fermo”.

Ci mescolammo a dei compagni che scappavano risalendo via Irnerio in direzione del centro. Camionette della celere ci tagliarono la strada. I primi colpi d’arma da fuoco. Francesca mi prese e mi fece accovacciare dietro un’auto.
“Stai giù finché non te lo dico”.
Una molotov colpì una camionetta a venti metri da noi.
“Togliamoci di qui”.

Ci rialzammo, corremmo per qualche centinaio di metri lungo il muro, poi intravedemmo Levante infilarsi a sinistra in via Mascarella. Ci buttammo di nuovo in mezzo ai compagni che scappavano per tornare verso l’università e imboccammo la stessa via. Ma alle spalle spuntò una colonna di carabinieri, raffiche di mitra. Si sparse il panico, fui travolto e caddi a terra davanti alla chiesa di Santa Maria e San Domenico. Venni calpestato su braccia e torace, ma alla fine riuscii ad alzarmi.

Di Francesca nessuna traccia. Mi voltai, mi appoggiai al muro per prendere fiato e vidi un poliziotto con elmetto e visiera deporre un fucile, estrarre la pistola, appoggiare le braccia sul tetto di una macchina e prendere la mira. Udii cinque, sei colpi in rapida successione e al tempo stesso notai un ragazzo voltarsi per guardarsi alle spalle, poi sbandare e correre traballante per un’altra decina di metri e infine stramazzare al suolo sotto i portici. Mi precipitai verso di lui, mentre quattro compagni lo raccoglievano e lo deponevano davanti a una libreria gridando il suo nome: Francesco. Mi feci largo. “Sono un medico, fatemi vedere”.

E quel che vidi era che non si poteva più fare niente. Un proiettile lo aveva colpito alla schiena arrivandogli probabilmente al cuore, il sangue gli stava uscendo dal naso e gli aveva ricoperto i baffi per colargli lentamente in bocca.

“Chiamate un’ambulanza. Subito”.
Immediatamente mi allontanai in cerca di Francesca. Ma fu lei a trovarmi. Mi strattonò dentro un portone.

“Non andare oltre. È in fondo a questa via. Mi sta aspettando. Tu stai qui e non ti muovere. Sistemo la faccenda e torno”.
Feci per replicare, ma lei, come per zittirmi, mi diede un bacio sulla bocca. Poi uscì di scatto con la pistola in mano ritrovandosi nel delirio di gente che urlava, correva, bestemmiava, malediceva, insultava, ma soprattutto fuggiva. Sapevo che stavolta eravamo davvero giunti alla fine, ma sapevo anche che non potevo lasciarla andare da sola proprio ora. Così non le ubbidii, estrassi il bisturi e dopo qualche secondo mi misi a seguirla mentre correva lungo il muro.

Mi tenni a una decina di metri di distanza, ma, attraversata piazza di Porta Mascarella, all’angolo con via Stalingrado, Levante uscì da un gruppo di studenti e le si parò d’improvviso davanti con la pistola spianata. Francesca sollevò la sua ad altezza d’uomo. Li separavano tre, quatto metri e gente che sfrecciava loro davanti. Fu questione di un attimo. Sentii due colpi in rapida successione. Francesca cadde all’indietro e cadendo sparò un altro colpo verso l’alto. Levante si afflosciò subito dopo sulle ginocchia, la pistola ancora stretta nella mano destra. Poi si rovesciò sul lato sinistro.
Corsi verso Francesca e mi gettai accanto a lei. Era morta, il colpo l’aveva presa in un occhio e le era uscito dalla testa. Mi rialzai. Non ero mai stato così lucido in tutta la mia vita. Andai da Levante. Era stato colpito allo stomaco, ma era ancora vivo. Perdeva bava dalla bocca. Mi chinai su di lui. Lo chiamai.
“Gianni”.

Levante aprì gli occhi. Fece come un sorriso contratto dal dolore. Portò la mano sinistra allo stomaco. Poi cercò di sollevare la pistola senza riuscirci. Mi alzai, slacciai l’eskimo e me lo misi sulle spalle. Poi mi inginocchiai davanti a lui e usai le falde aperte per coprire la scena e il suo volto. Da sotto l’eskimo gli tranciai la giugulare con il bisturi. Uno spruzzo di sangue mi arrivò sui jeans e sulle scarpe. Udii solo un gorgoglio troncato a metà. Poi lo sentii afflosciarsi.

La vita è una camera d’aria. Rimisi il bisturi nella taschino della camicia e mi allontanai indisturbato rimettendomi l’eskimo. In tutto quel casino, apparentemente nessuno si era accorto di nulla. Ripassai davanti a Francesca senza fermarmi. Ma la sua immagine, lì sdraiata, era la prima che avessi mai visto di una madonna morta. E che mai più avrei cancellato.

Mi muovevo per forza d’inerzia sbattendo in continuazione contro qualcuno o qualcosa. In via Zamboni erano state erette lunghe file di barricate lucide di pioggia fatte di sedie, panche, cattedre, tavoli da mensa, un carrello dei bolliti, vasi di fiori, un pianoforte. I compagni, muti e coi capelli che colavano acqua, stavano allineando decine di bottiglie vuote che venivano riempite immediatamente di benzina. Poi qualcuno si lamentò che mancavano gli stracci e che anche i fiammiferi antivento stavano finendo.

Passai in mezzo a loro, occhi arrossati dal pianto e dai lacrimogeni, tasche piene di sampietrini. Proseguii e mi mescolai a un corteo che si stava muovendo verso la sede della Democrazia Cristiana in via San Gervasio. Altri si stavano dirigendo verso la sede del “Resto del Carlino” in via Mattei, altri ancora verso la stazione. Tutti avevano sul volto un fazzoletto bagnato, il passamontagna o una bandiera strappata. Dalle finestre ci gettavano mezzi limoni da spremere su occhi e bocca per mitigare l’effetto dei lacrimogeni.

Il corteo era un’onda che ingrossava e che straripò in piazza Maggiore. Poi smise di piovere. Fu come se avessero tolto la sordina. Udii il coro: “gente gente gente, non state lì a guardare, abbiamo un compagno da vendicare”.

Quando la coda del corteo fece per entrare in via Bassi, sentii delle detonazioni arrivare da via Marconi. Frammenti di corteo come macchie nere che si spostavano per evitare i candelotti in arrivo che si abbattevano sul selciato e iniziavano a rotolare. Come un tempo le frecce, nell’aria decine di molotov. Il fumo si sparse per centinaia di metri. Fiamme ovunque. Non riuscivo più nemmeno a distinguere chi mi stava accanto, gli altri non ero riuscito a ritrovarli, e quando iniziò a girare la voce che la polizia voleva imbottigliare il corteo corsi dietro quelli che scappavano per via Indipendenza.

Avevo dei conati di vomito e mi sentivo svenire, ma quando tornai a respirare aria fresca mi ripresi. In via Indipendenza ritrovai Beppe e Zago, contusi, laceri e anche loro incerti sul da farsi. Intorno a noi, piccoli gruppi che si muovevano a elastico in tutte le direzioni. Non sapevamo chi aveva vinto, chi aveva perso, ma sentivamo che essere stati lì quel giorno era già una vittoria.

Tornammo verso l’università, ovunque per terra vetri rotti e alettoni di candelotti lacrimogeni. Lì ci dissero che la battaglia si era spostata alla stazione e ci mettemmo a correre in quella direzione. Molti compagni si erano asserragliati dentro, intorno autobus rovesciati, messi di traverso e dati alle fiamme. Polizia e carabinieri si disposero sotto i portici, verso le due uscite.

Colpi d’arma da fuoco. In ogni angolo della piazza esplosero delle molotov. Le camionette della Celere presero fuoco. Con gli altri mi buttai a terra e strisciai verso le colonne dall’altro lato della stazione. Una ragazza accanto a me in preda a una crisi isterica gridava che le avevano sparato con un mitra. Mi si aggrappò alla schiena impedendomi di proseguire. Mi rialzai, la presi in braccio e di corsa attraversammo l’ultimo tratto. Ancora spari. Sui muri le scintille provocate dai proiettili.

Uno studente in bicicletta cadde davanti a me colpito da alcune schegge. Quando i compagni riuscirono a fuggire dalla stazione, controllai che la ragazza stesse bene e con gli altri tornai in piazza Verdi. Là le voci si rincorrevano, si parlava di arresti e si facevano i primi nomi, noi ci mettemmo in cerca degli altri. Beppe chiedeva di loro a chiunque passasse, ma tutti erano così stremati, assenti, scossi, frastornati, che nessuno gli dava retta.

Mi sedetti ai piedi di una colonna all’angolo con largo Respighi e di colpo avvertii dolore, sete, fame, disperazione. Beppe mi si avvicinò, il volto viola, sudato, enfio: sembrava caduto in una pentola di acqua bollente.
“Dov’è la tua donna?”
“Non lo so. L’ho persa più di due ore fa. La ritroveremo, ora ho bisogno di pisciare e di bere”.

Avere negato la sua morte era già come averla tradita. Ma non potevo pensarci in quel momento. Gli tesi la mano, puntai i piedi e mi feci sollevare. Beppe mi guardò sospettoso.
“Hai i pantaloni e le scarpe piene di sangue. Sei ferito?”
“No, sto bene”.
“E da dove arriva tutto quel sangue?”
“Ho soccorso uno che hanno ammazzato in via Mascarella”.

Tutti i bar avevano le saracinesche abbassate e nei paraggi non c’era nemmeno una fontanella. Quando passammo davanti al ristorante Cantunzein vedemmo che altri compagni erano riusciti a forzare l’ingresso e li seguimmo nel locale. Ogni cosa commestibile fu divorata, io mi accanii su una forma di grana, poi riuscii ad afferrare una bottiglia di champagne e uscii mentre il saccheggio proseguiva. Non avevo più voglia di parlare con nessuno e nemmeno di ascoltare i loro racconti. Mi congedai dagli altri con un abbraccio e una sigaretta.

Pensai a Francesca, alla sua morte, alla mia vita da consumare in sua assenza. Quella giornata mi aveva riportato la paura e con la paura gli scricchiolii delle porte che si aprono quando meno te lo aspetti. Accesi la sigaretta, non ne fumavo una da tempo, sapeva di lacrimogeno. Nell’aria quell’odore acido che mai avrei dimenticato.

 

 

Dal 30 settembre Rossi e Galfrè in mostra al Castello di Casale Monferrato CorriereAl 6Paolo Grugni
L’odore acido di quei giorni
Laurana editore, collana Rimmel, 2011
pp. 284, € 16,50