Il nostro orticello di casa non è il mondo. Dobbiamo tenerlo ben presente, noi che viviamo in una periferia disastrata di un Paese in crisi profonda e strutturale. Evitando di credere, erroneamente, che il disastro sia planetario, e quindi magari di autoassolverci grazie al classico “mal comune, mezzo gaudio”.
Sempre più spesso infatti mi tocca ascoltare persone (che all’estero ci sono andate magari giusto al villaggio vacanza in offerta speciale) pontificare sul fatto che “sta crollando il modello occidentale”, “siamo alla fine dei tempi”, e via dicendo. Ma quando mai! La crisi (gravissima, di sistema) riguarda alcuni Paesi sciancati e debosciati, come il nostro, da decenni in mano ad un mix di incompetenza, cialtronaggine, fatalismo. Quante volte di siamo cullati (e ancora la tentazione c’è, ogni tanto) con la retorica del genio italico, che consente sempre di cavarsela al meglio, e magari di fregare il prossimo, inteso come altri popoli? Ignorando bellamente che il percorso di un Paese non si costruisce o risolve con un contropiede vincente in una partita di calcio, ma necessita programmazione, investimenti, scelte strategiche di lungo periodo.
Tutto ciò, insomma, che da noi è mancato, a Roma come ad Alessandria, almeno negli ultimi vent’anni. Per cui oggi ci apprestiamo a pagare il conto, e assai salato.
Ma, appunto, se guardiamo a quel che succede nel mondo, oltre a constatare che Stati Uniti e Germania, per fare due nomi di peso, sanno investire sul futuro assai più di noi, non possiamo non constatare un altro elemento essenziale: mentre l’Italia sta disinvestendo pesantemente su istruzione e sistema formativo, altrove succede il contrario.
E c’è un concetto, da noi semisconosciuto, che pare destinato, nel giro di un quinquennio, a mutare le sorti di buona parte del pianeta. Si chiama istruzione globale on line aperta a tutti, con corsi gratuiti (i Mooc, l’acronimo sta per Massive open online course) che già oggi pare stiano trasformando, e accelerando, le modalità di “acquisire conoscenza” di milioni di persone, giovani e residenti in tutto il pianeta. Eccone un esempio: www.coursera.org
La lingua “franca” è, come sempre, l’inglese. Anche perchè le piattaforme e le proposte formative sono frutto dell’elaborazione di numerosi atenei prestigiosi come Stanford, Columbia, Duke, Brown, MIT, Princeton, Harvard.
Ma non è detto che, con la diffusione capillare del fenomeno, non si sviluppino percorsi anche in altre lingue, magari persino italiano. Il punto, però, è la potenzialità che questo nuovo percorso formativo sembra destinato ad avere su intere aree del pianeta, dall’Asia all’Africa, dalla Nigeria alle Filippine. Unico recquisito necessario, un’adeguata connessione Internet. Alla faccia di chi pensa che il web sia solo pettegolezzo da bar o da cortile, o sfogo di frustrazioni sui social network. La Rete è strumento rivoluzionario, dalle potenzialità enormi. Come sempre, puoi usarla molto bene, o molto male. Tutto lì.
Bene. Ma quale sarà la nuova frontiera? Cosa genererà tutto questo flusso di formazione, di know how, di sapere condiviso? “Sta a vedere che tra cinque anni si saranno ulteriormente moltiplicati i laureati sapientoni, e i lavori meglio pagati saranno sempre di più quelli manuali che nessuno vuole più fare”, commenta sorridendo un mio amico, non senza buonsenso.
Ma questa è una visione localistica, da periferia di un Paese in caduta libera, quale siamo e quale dovremmo cercare di non essere più.
La realtà è che il futuro del mondo si sta ridisegnando vorticosamente, mentre l’Italia è un Paese in mano ad anziani (in politica, in economia, nelle tante articolazioni della società) che difendono con le unghie e coi denti, comprensibilmente, un modello socio politico economico che hanno visto crescere ed affermarsi. Ma che non sarà, temo, quello di domani. Parliamo dunque pure di diritti acquisiti, e continuiamo ad essere convinti (almeno in questo blog) che è necessario difendere sempre e comunque i più deboli. Ma chiediamoci anche come, in un mondo che, tra cinque anni, non sarà quello di oggi, e tantomeno quello di dieci anni fa, come questi anziani aspiranti leader nostrani vorrebbero farci credere (magari credendoci loro per primi, naturalmente).