(seconda parte)
Non so se esista una passione per le maglie “vintage” (come si dice) del ciclismo, e se sia diffusa come per quelle del calcio, anche se immagino di sì.
A me piacciono molto, e confesso di essermene anche comprata una della Brooklyn, con quei colori che rimandano alla bandiera americana, per le (rare) volte che vado ancora in bici. Ho visto sul web che si trovano quelle Faema, Molteni, Salvarani, Scic, Filotex, e immagino che i miei coetanei o quasi stiano vedendo nella memoria quei colori, la bianca con vu rossa, la marrone con banda nera tutte e due indossate da Merckx, la azzurra con banda nera di Gimondi, la bianco e nera di Adorni, Saronni e Baronchelli, la blu notte con banda bianca di Bitossi e del giovane Moser…
Si trova naturalmente anche quella Peugeot, una delle più belle a mio parere, bianca con ampia banda a scacchi.
Peugeot, ho scoperto su cyclingranking.com, è la squadra di maggior successo di sempre, anche per l’eccezionale longevità: coi suoi colori (non da subito quelli citati, adottati dal 1963) i ciclisti corsero e vinsero dal 1901 fino al 1986.
Nel 1966 passò professionista indossando la tenuta bianca con ampia banda a scacchi un giovane talento belga che un paio di anni prima aveva vinto il mondiale dilettanti.
Lo accolse il capitano della Peugeot, proprio Simpson, e lo prese subito sotto la sua ala protettiva, diventarono compagni di stanza e amici, Tommy non perse mai occasione per dargli qualche consiglio e istruirlo. Questo giovanotto di belle speranze si chiama Eddy Merckx e nelle prime due stagioni vinse tra l’altro per due volte la Milano-Sanremo.
La “classicissima di primavera” allora si correva sempre il 19 marzo, festivo fintanto che San Giuseppe non diventerà, giusto dieci anni più tardi, una festività soppressa, ma nel ‘67 il 19 coincideva con la domenica delle Palme, quando tutti dovevano poter andare a messa a celebrare la tradizione dell’ulivo benedetto, pertanto si anticipò di un giorno la gara.
Simpson ricambiò il favore a Merckx, che lo aveva assistito nella vittoria alla Parigi-Nizza, e gli guardò le spalle durante la fuga decisiva (prima in compagnia di Gianni Motta, poi si aggiunsero Gimondi e Bitossi, il toscano con il cuore matto come il titolo della canzone che Little Tony aveva cantato, con grande successo, al Festival un paio di mesi prima, nell’edizione che tutti ricordiamo per il tragico suicidio di Luigi Tenco).
Pochi mesi e, come scritto nella prima parte, anche per il ciclista inglese sarà tragedia.
Tra la fine degli annunci settanta e l’inizio degli anni ottanta, il team Peugeot ingaggiò molti ciclisti britannici, già trasferitisi in Francia visto che sull’isola le corse erano poche, e le squadre pochissime. Tra quelli che iniziarono così la carriera c’è Stephen Roche, che nel 1987 vincerà Giro d’Italia (dove “tradì” il compagno di squadra Visentini e fu ferocemente contestato dal pubblico nell’ultima settimana), Tour de France e campionato mondiale su strada.
Il primo ad avere parecchio successo sarà però uno scozzese minuto, cresciuto in un sobborgo di Glasgow quando la città scozzese era ancora nota per il degrado, non per il successivo recupero urbano. Duro di carattere, con sé e con gli altri, ritenuto da tutti infatti intrattabile, di pochissima compagnia, Robert Millar si laureò campione scozzese a 18 anni ancora da compiere. Pedalare veloce fu il suo modo per sfuggire a un destino segnato, la fabbrica, il pub, botte più prese che date. Anche lui si trasferì in Francia, interrompendo del tutto i rapporti con la famiglia. Qui colpì gli allenatori per la feroce determinazione, che gli ottenne un contratto professionistico, come detto, con la Peugeot.
Vinse al primo Tour disputato, quello 1983, la tappa pirenaica che saliva Aubisque, Tourmalet, Aspin e Peyresourde. L’anno dopo vinse (primo britannico) la mitica maglia a pois degli scalatori, e si piazzò quarto assoluto, un primato britannico battuto solo negli anni dieci di questo secolo da Wiggins e da quel Froome di cui abbiamo detto nella puntata scorsa.
La sua carriera durò fino alla metà degli anni novanta, sfiorò la vittoria in una Vuelta (persa solo per un “trappolone” degli spagnoli), aiutò Roche nel Giro dell’87 citato prima, in cui fu secondo assoluto, vinse ancora una volta il tappone pirenaico nell’89. Il ciclista britannico di maggiore successo dopo Simpson poi… letteralmente sparì, dopo il ritorno in Gran Bretagna, dopo avere lasciato in Francia una moglie e una figlia (ne avrà un’altra da una ragazza inglese).
Giravano voci nell’ambiente, ma ormai nessuno lo frequentava più, quasi nessuno sapeva dove fosse finito, pochissimi potevano contattarlo, di fatto solo per trasmettere i suoi articoli (scritti con grande competenza) al blog Cyclingnews e al Guardian.
Il 7 luglio di quest’anno proprio su Cyclingnews è apparso: ‘A statement from Cyclingnews contributor Philippa York’.
“Philippa è stata un collaboratore regolare di questo sito per molti anni e ha scritto col suo nome precedente, Robert Millar” dice l’occhiello.
Vale la pena di tradurre alcuni passaggi del testo:
“…Avendo parlato di progresso, e di andare avanti, arrivo a una questione molto più personale relativa al viaggio che io, e quelli che mi stanno vicino, abbiamo affrontato dall’inizio del millennio. Il risultato è che, da parecchio tempo, io vivo come Philippa. In questo viaggio ho tutelato negli anni la mia privacy per ragioni, credo ovvie, e quindi non ho assunto una “immagine” pubblica dal momento della transizione (n.d.B.: Philippa usa proprio “I transitioned”, verbo molto bello e difficile da rendere, traducendo). Grazie al cielo, le cose sono progredite rispetto a dieci anni fa quando la mia famiglia, i miei amici ed io eravamo soggetti a visioni arcaiche e pregiudizi che certe persone e certe sezioni dei tabloid (“certain sections of the tabloid media”) avevano. Per fortuna le questioni di genere non sono più soggette a una tale ignoranza e intolleranza (n.d.B.: spero che quello che scrive Philippa sia vero anche in Italia), c’è molta più accettazione e comprensione. I passi fatti in un lungo periodo sotto l’occhio attento dei medici per completare la transizione da un genere a un altro possono essere difficili, e sono sempre affrontati dopo molta ricerca spirituale e molte angosce. E anche se l’approdo finale può essere giudicato un posto più felice e più stabile, le emozioni attraversate per raggiungerlo mi hanno reso in certi periodi davvero vulnerabile.”
Philippa non s’era mai arresa, da atleta, di fronte alle difficoltà, e non l’ha certo fatto ora da essere umano. Campione sulla bici, campione nella vita.
Epilogo. Quest’anno il team Sky del vincitore Chris Froome ha corso il Tour de France con un’inedita divisa bianca. Solo scelta cromatica o omaggio alla vecchia maglia della nazionale inglese?
Nel 1967 al Tour gareggiavano ancora le nazionali (si passò ai club due anni più tardi) perciò Tom Simpson morì indossando non la maglia Peugeot ma quella bianca Inghilterra.
Al Tour alcune tappe sono state commentate, per la TV inglese, da Philippa York, con la sua tradizionale grande competenza. Un ritorno in pubblico accolto con grande favore da tutti.
Non lo hanno sfidato, il Ventoux, quest’anno. Forse il monte che non sta né nei Pirenei né nelle Alpi ma da solo domina la Provenza come un alieno precipitato lì ormai appartiene, insieme per esempio al vecchio circuito automobilistico del Nurburgring, alla mitologia di un’era in cui si chiedevano agli atleti sforzi e rischi oggi considerati eccessivi.