“Facciamo un capannone in più, no forse ce ne stanno due”: è lo stralcio di una delle tante intercettazioni fra alcuni dei protagonisti alessandrini dell’affaire rifiuti che tiene banco da qualche settimana sui giornali, ma anche nei bar cittadini. Lo scenario è l’impianto Aral di Castelceriolo, nella da sempre martoriata Fraschetta. Ma anche la discarica di località Calogna, fra Solero e Quargnento, ormai pure quella quasi ‘a tappo’.
Il futuro è nella merda, secondo lorsignori. Mercanti di rifiuti, dirigenti d’azienda pubblica e privata, consulenti gratuiti all’opera per amicizia, e per amore della collettività alessandrina. Ai giudici, e solo a loro naturalmente, di stabilire se sono stati commessi reati, e da parte di chi.
Però l’opinione che la gente comune si fa di certe vicende conta, eccome. Genera conseguenze, non solo politico-elettorali, ma di fiducia e condivisione nei progetti di comunità. E qui ci hanno portato ai minimi storici, inutile girarci attorno.
La bella inchiesta a puntate (e non è detto che sia finita qui) pubblicata nei giorni scorsi su La Stampa, a firma Antonella Mariotti, ci ha offerto uno ‘spaccato’ alessandrino che si incastra all’interno di una vicenda molto più ampia.
Più che di affaire Aral sarebbe corretto parlare di affaire A2A, dal momento che le vicende mandrogne sono una ‘derivata’ (non marginale, peraltro) della complessa vicenda che ruota attorno al mega inceneritore di Brescia, “un impianto che ha fame di monnezza per funzionare (è il terzo per grandezza in Europa) e deve sempre girare a pieno regime con 800 mila tonnellate l’anno”, scrive Antonella Mariotti.
Citando poi Carmine Trecroci, docente di economia e responsabile di Legambiente Brescia: “nelle città del Nord ormai si produce poca spazzatura, siamo diventati bravi, ma questi impianti hanno bisogno di molti rifiuti per funzionare e allora compaiono i faccendieri che i rifiuti li procurano, stabilizzati, in regola o meno non importa. Li muovono e li portano dove servono”.
Ecco, a quanto pare di capire (tenendoci alla larga dai risvolti giudiziari, compito dei tribunali) la nostra provincia è sempre più terreno di scontro, e di caccia, per business ‘border line’. Ci eravamo già arrivati ‘ad intuito’, anche se poi queste indagini giudiziarie (che partono sempre da altri territori) ci danno conforto empirico.
Pur non conoscendo i fatti, i nostri ‘nasi’ in Fraschetta sono diversi anni che, soprattutto la mattina presto, percepiscono anomalie odorifere, a fronte delle quali abbiamo sempre ricevuto informali rassicurazioni: “è la discarica, tranquilli: ma niente di nocivo, solo un po’ di problemi olfattivi, ma stanno risolvendo”. Ora sappiamo che si trattava in effetti, rispetto al business di ‘risanamento’ dei conti dell’azienda che c’era dietro, di un piccolo salasso che è valso la pena pagare, come cittadini. O no?
Scrive il giudice bresciano che ha in mano l’inchiesta: “Il movente economico dell’attività illecita veniva dagli inquirenti rinvenuta nella situazione di dissesto finanziario di Aral, come si evince dal bilancio aziendale (31 dicembre 2014) che riporta una passività di 33 milioni di euro. Giova sottolineare che nel 2015 in coincidenza con il ritiro di migliaia di tonnellate di rifiuti dal Sud la situazione economica della società subiva un netto miglioramento”.
Capito? Un risanamento finanziario da record, se così stanno le cose. Anche se l’ipotesi degli inquirenti è che, per riuscirci, si siano un po’ forzate le procedure, diciamo così. Ora rischiamo di pagarne le conseguenze: l’assemblea dei soci Aral è fissata per domenica 30 luglio, e potrebbe succedere di tutto.
E’ il business della merda.