Con estremo piacere stiamo centellinando le ultime pagine dei ricordi che Lucia Lunati ci ha tramandato con il piccolo gioiello editoriale La mia cara Alessandria. Voglio aggiungere che con il piacere della lettura sia presente anche un po’ di magon. Le piccole cose, magari anche non molto importanti, narrate con la semplicità della gente qualunque, diventano improvvisamente importanti come certe piccole e semplici cose, ormai rare, che a volte ci capita di trovare. Ritengo che si possa tranquillamente chiudere un occhio sulla qualità della scrittura, seppure questo scritto così saturo di racconti e così pieno di aneddoti non brilli per eccelso stile. Dalla lettura esce con dolce prepotenza il carattere vivace dell’allora ragazza. La signora Lucia ormai matura (nel 1968) ci racconta fatti ed accadimenti che si perdono tra gli anni a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento. Gli anni della sua infanzia e giovinezza. Ricordi limpidi che ci fanno scoprire non solo episodi di vita ma anche comportamenti e abitudini di persone legate al tempo andato ed a questo territorio.
Ora ascoltiamo cosa ci racconta Lucia Lunati.
“Per necessità di avere casa più spaziosa e confortevole ci trasferimmo in via Lodi. Nel frattempo anche la mia amica Elena andò ad abitare nel suo palazzo di piazza Garibaldi; ne soffrimmo tutte e due, nei primi tempi riuscimmo a vederci almeno ogni due giorni, ma poi, come del resto succede a tutto ciò che si deve rinunciare, ci adattammo alla separazione che a poco a poco incominciò ad essere meno sentita.
La casa di via Lodi era situata di fianco alle scuole normali Diodata Roero Saluzzo, costruzione abbastanza recente, allora, con belle aule; sorgeva ove nei passati tempi vi era il convento delle Orsoline e di questo convento sentii parlare di certi fatti un po’ scuri forse tramandati dalla fantasia della gente e tra questi quello della Suclen (zoccolina). Alcuni dicevano di sentire ancora di notte il suo passo sul selciato nei pressi del convento. Pare si trattasse di una suora murata viva, molti secoli prima, perché scoperta a tradire i suoi voti di castità. In queste scuole io frequentai la quinta elementare e le complementari e, non per vanto, vinsi anche una borsa di studio di L. 50 (cinquanta) alla quinta elementare negli esami di ammissione alla prima complementare. Dico questo per dare l’idea di ciò che potevano rappresentare allora L. 50. Io ero fiera e mi pareva di essere un genio ed entrai in prima complementare con un buon biglietto di presentazione.
Dunque la nostra casa nuova era assai bella per allora, comoda e confortevole in confronto a quella che avevamo lasciato e ci stavamo volentieri.
Papà era contento perché oltre essere abbastanza vicino alla fabbrica aveva anche una bella cantina ove poteva far fare il vino per il nostro fabbisogno annuale con la nostra uva di Pecetto, della superstite vigna detta la Balonzina, cioè la pietraia.[1] Questa cantina era spaziosa e le nostre attrezzature ci stavano a dovere. Vi era Gepa, il vecchio cantiniere che da anni ci faceva le cose per bene secondo la guida di papà. Ricordo come era ben tenuta, con tutte le botti in gradazione ed un enorme tino. Il vino riusciva sempre bene e papà ne era orgoglioso; Gepa faceva pure una « vinella »[2], così si chiamava, frizzante, chiara e dissetante, però bisognava consumarla presto perché in febbraio cominciava a non essere tanto buona.
A casa nostra però non si arrivava mai a tale epoca. Era sempre finita prima. Gepa aveva pure la specialità di mettere i peperoni sotto aceto, faceva cioè un miscuglio di vinacce con aceto, vino, ecc. ma lui solo poteva manipolare questi ingredienti che davano sempre risultati sorprendenti; i peperoni riuscivano sempre gustosi, ben incartati e mai rammolliti e dei duecento e più che si mettevano non ne avanzavamo mai.
La casa era abitata da soli quattro inquilini, tanti quanti gli appartamenti permettevano. Noi al primo piano con a fianco il professor Lama con la moglie ed il figlio Luigi che morì da eroe nella prima guerra mondiale meritandosi la medaglia d’oro al valore. Il padre, per onorare la memoria del figlio, fondò un premio non so a chi destinato. Al secondo piano vi abitava l’ingegnere della provincia Balladore con moglie e un figlioletto e di fianco a questi e precisamente sopra il nostro alloggi, il Canonico Volante, professore di fisica al Seminario di via Vochieri.
Il canonico non era più giovane, forse sulla sessantina o più, e viveva con una nipote di pari età. Raramente venivano parenti o gente a visitarlo. Dicevano che fosse molto colto, ma per noi vicini di casa, potevamo dire che era molto strano. Di aspetto distinto, sempre ben vestito, sempre serio se non addirittura imbronciato. Amava molto i fiori in vasi che aveva in abbondanza, tutti allineati sul lungo balcone sospesi alla ringhiera da anelli di ferro ben assicurati. Li curava assiduamente ma il modo più curioso era quando vi soffiava col fumo di sigaro toscano. Stava ore a fumare e a bocca piena riversava il fumo sui fiori. Doveva essere un buon trattamento a giudicare dai risultati.
La sua vicina, signora Balladore, aveva pure lei dei vasi, ma erano ben brutti in confronto a quelli del canonico ed allora il buon prete si offerse di andarli a soffiare col suo poderoso toscano. Fu così che le due famiglie fecero conoscenza e si frequentarono. Però, come ho già detto, il vecchio canonico era un po’ strambo e dopo qualche tempo l’amicizia si guastò e la signora con noi aveva detto che suo marito era contrario avere un prete per casa.
Quando il canonico si trovò solo ripiegò su di noi, perché era un uomo che amava la compagnia. Così sapendo che noi avevamo in famiglia un giovane salesiano venne a farci i complimenti e a poco a poco cercò di affiatarsi con i miei genitori. La nonna però non lo vedeva volentieri e diceva che i preti devono stare da loro nei collegi, perciò non gli faceva buon viso. Papà, poveretto, quando era a casa preferiva stare tranquillo a leggere la «Gazzetta del Popolo», allora di intonazione laica, e fumare il suo toscano con un buon bicchiere del suo vino. La mamma poi aveva sempre da fare perciò non aveva gran tempo da dedicare alle sedute che intendeva fare il nostro canonico e del resto i miei genitori spesso non erano interessati agli argomenti che a volte il reverendo intavolava. Sicchè dopo qualche tempo che puntualmente si presentava alla sera in casa nostra, incominciammo ad essere stanchi. Come accade in questi casi si trovavano scuse per almeno saltare qualche serata e a poco a poco lo allontanammo. Lui se ne accorse e se ne ebbe a male. Era davvero un tipo stravagante. Avrebbe dovuto tagliar corto e ritirarsi dignitosamente. Invece incominciò a fare dei dispetti quasi infantili, ci tolse il saluto, ma ciò che ci portò all’esasperazione fu il baccano che ogni sera e anche di giorno combinava sulla nostra testa in quasi tutte le camere contemporaneamente.
Non siamo mai riusciti a capire come facesse, e neppure di quali generi di rumori si trattasse perché era una confusione di cose che rotolavano, colpi ben assestati, oggetti trascinati e lasciati cadere tutti di colpo, ruote che giravano o macinini che cigolavano. Un rumore d’inferno che durava anche più di un’ora. Papà non voleva che ci lamentassimo, diceva che il prete si sarebbe stancato, ma quello calcava sempre la dose. Una sera salì mio fratello Sandalio, proprio mentre infuriavano i rumori, ma appena suonò il campanello tutto fu silenzio ed il canonico con stupore disse che in casa sua tutto era tranquillo e silenzioso. Anzi invitò mio fratello ad entrare qualora volesse persuadersene. Credevamo che questo nostro intervento bastasse a farlo desistere. Invece niente da fare. Soliti rumori, ma evitava di farli alla sera e solo di giorno ci tormentava. A volte eravamo esasperati, con i nervi tesi che in casa non ci si capiva più.
La mamma allora interessò il padrone di casa signor Milanese ed anzi lo invitò a sentire quella scorribanda e stupito ci promise di mettere le cose a posto. Non so se poi veramente fece qualche cosa o no, perché nulla cambiò ed i rumori continuarono come prima.
Questa volta la mamma, con rincrescimento, pensò di rivolgersi a qualche persona ben più influente. Non sono mai riuscita a saperlo ma il fatto è che dopo qualche giorno tutto tornò finalmente silenzioso e normale. Non so perché io ero convinta che il canonico fosse un medium evocatore di spiriti, forse perché la nonna, quando sentiva quei rumori, diceva in dialetto che don Volante « batteva la fisica ». rimase in quella casa ancora qualche tempo e poi si ritirò al Seminario, come desiderava mia nonna.”
Leggendo queste pagine di ricordi di Lucia Lunati mi torna alla mente una chiacchierata che tempo fa avevo allacciato con un amico. In una certa occasione era successo qualcosa di grave, non ricordo bene cosa. Non saprei dire se fosse un ferimento o un omicidio e – come spesso accade – istintivamente avevo subito preso le difese della parte lesa. L’amico, guardandomi molto seriamente, mi aveva detto: “Ricordati che quando succede qualcosa di così grave c’è sempre un motivo. Noi forse non lo conosceremo mai, ma c’è sempre un motivo importante dietro ogni episodio del genere”.
Ho pensato quindi immediatamente che il canonico Volante avesse avuto la grande fortuna di trovare sulla sua strada persone di elevatissima educazione e dignità.
Forse altri vicini di casa, meno tolleranti e pazienti, avrebbero risolto il problema scaraventandolo giù dal balcone senza battere ciglio e trasformando così il canonico Volante in un prete volante.
A corredo di queste pagine ho scelto di abbinare alcune cartoline antiche di notevole interesse.
Una inimmaginabile piazza Garibaldi, tracciata ed edificata da pochi anni, in cui si possono ammirare elegantissime persone durante il passeggio pomeridiano. L’orologio indica le 17,10 ed un gruppetto di belle signore è in posa per farsi immortalare dal fotografo e passare, sia pur in maniera anonima, alla storia.
La seconda cartolina, alquanto insolita rispetto alle altre, ci regala la visione di via Cavour esattamente dove ha termine Via Lodi. L’Istituto magistrale, l’allora Scuola Normale Femminile e l’abitazione della scrittrice sono all’inizio di questa strada, esattamente dalla parte opposta rispetto all’inquadratura.
Una bella cartolina dell’Editore Tasso ci mostra la facciata dell’edificio in cui avevano sede le Scuole Normali proprio negli anni delle descrizioni di Lucia Lunati. La cartolina va collocata verso l’inizio del Novecento, seppure si stata spedita diversi anno dopo.
Infine un soggetto di una certa rarità anche per via della bellezza dell’immagine: il cortile del Seminario Vescovile e la specola in una cartolina tratta da Album Alessandrino, volume a mia cura stampato da Maxmi nel 1992 (con prefazione di Giovanni Sisto) e ormai introvabile. La cartolina non indica chi ne sia l’editore, fu stampata intorno al 1910 e spedita nel 1917.
La struttura principale dell’edificio del Seminario diocesano appartiene al ‘700. Il palazzo subì numerosi rimaneggiamenti nel corso degli anni. La facciata è del 1832–34, opera di monsignor Dionigi Pasio. La torre (1855–56), opera dell’ingegner Garbarino, era destinata ad osservatorio meteorologico.
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[1] Per quanto riguarda il termine Balonzina, la denominazione della vigna di cui si parla, occorre fare una specifica. Il termine “pietra” si traduce generalmente con “preja”. Altresì può essere tradotto con la voce gergale “balonz” (la Z, in questo caso, non si deve pronunciare come si fa nella lingua italiana ma qui deve intendersi come la S nella parola “esatto” e non come la stessa consonante nella parola “salto”).
[2] Con il termine “vinella” ritengo che la nostra Lucia volesse intendere quella sorta di vino che i contadini facevano per non sprecare il poco succo d’uva ancora presente nelle vinacce, dopo un’approssimativa spremitura. Era il cosiddetto “secondo vino”, che però non deve essere confuso con un vino di seconda scelta. Il “secondo vino” veniva prodotto aggiungendo un poco di acqua e di zucchero alle vinacce dopo di che, a fermentazione avvenuta, si torchiava ricavandone una bevanda poco alcoolica. Come giustamente rivela la nostra scrittrice, andava consumato in poco tempo.