Esami di maturità di ieri e di oggi: Fernanda Pivano al liceo D’Azeglio

Esami di maturità: a Fernanda Pivano (e Primo Levi) 3 in italiano al D'Azeglio. Ma era il 1937 CorriereAl 1di Enrica Bocchio

 
Giugno è un mese molto caldo per tutti, grazie al solstizio d’estate e nel nostro caso anche all’appuntamento elettorale; ma per gli studenti alle prese con la maturità c’è un problema in più: le prove d’esame, che sono sempre un’incognita per tutti, anche per chi non penserebbe mai di incappare in una rischiosa disavventura. Il brano che vi propongo, soprattutto la dedica finale, dimostra che a volte non tutti i mali vengono per nuocere.

 

Quando vivevo a Genova coi miei genitori, l’estate aveva un placido contorno ripetitivo: a luglio finivo la mia scuola svizzera e facevo ordine nei libri, in agosto venivo portata in un bell’albergo di S. Margherita e a settembre in un altro bell’albergo di Gressoney.

Poche avventure, benessere superprivilegiato, dolce mamma bellissima, papà autorevole e illuminato.
Inutile dire che ero sempre promossa, sicché non avevo il problema degli esami a settembre, come si diceva allora. Ma un anno..

Un anno dopo che la mia famiglia si era trasferita a Torino, quando andai al Liceod’Azeglio a vedere il “cartellone” che precedeva la maturità classica vidi, senza credere ai miei occhi, che mi avevano dato tre alla prova scritta d’italiano, il che significava allora ridare a settembre gli esami di tutte le materie. Uno dei miei compagni di classe era Primo Levi e anche lui guardò sbalordito il cartellone che gli assegnava lo stesso responso.

Era davvero un’avventura. Nostro professore d’italiano era Cesare Pavese che ci giudicava quasi sempre con voti molto lusinghieri e aveva molta fiducia, fino a imbarazzarci, nei nostri componimenti.

Levi e io ci guardammo senza parole. Poi gli chiesi: “Ma cosa è successo? Hai fatto un tema antifascista?” “Sei matta” rispose con quella sua calma, quella sua sommessa accettazione che già allora era una delle sue caratteristiche. “Io sono ebreo, lo sai”.

Era il 1937 e l’Olocausto, che ancora non si chiamava “Olocausto” era lì, nella coscienza collettiva. Ma continuavo a non capire.

Il papà volle sapere chi era il professore che mi aveva bocciato, ma io sapevo soltanto che era piccolo e grasso, con la brillantina sui capelli e un grosso distintivo fascista sul vestito bianco.  Pare che venisse da Brescia. E poi? Niente, dovevo rifare tutti gli esami e basta.

Brutta, brutta avventura, la prima brutta avventura della mia vita iperprotetta: un’avventura che mi fece conoscere l’ingiustizia e l’assurdità e mi lasciò un trauma forse alla base della mia sfiducia nelle scuole.

Così, niente S. Margherita, io esausta per la preparazione di quell’esame che allora era a dir poco perverso, rimessa subito sui libri per non dimenticare il cumulo di nozioni inutili di cui ero stata infarcita.
La sera, verso le undici, la mamma mi staccava dai libri e mi portava a un piccolo bar di corso Vittorio Emanuele a bere una gassosa, di quelle che usavano allora con la pallina all’imboccatura della bottiglia. In fretta, e poi subito a casa a studiare fino alla una, forse alle due di notte.

Fu davvero un’avventura. Ne dedico il ricordo al professore di Brescia che la fece vivere a Primo Levi e a me, con interessante perspicacia letteraria.

 

(Elle, luglio 1994) Fernanda Pivano, “Viaggio Americano”