Nelle pagine che Lucia Lunati ci ha lasciato con il libro La mia cara Alessandria scopriamo una città che conosciamo bene e – paradossalmente – è tanto lontana da noi per mille motivi.
Così come è bello ripercorrere la storia urbanistica della città attraverso le cartoline d’epoca, allo stesso modo è interessante poterlo fare grazie al racconto di un testimone oculare del tempo passato. L’Autrice diventa, oltre che testimone, preziosa protagonista narrante, riuscendo ad affascinare con la sua semplicità, raccontando la sua Alessandria, quella che all’epoca dei suoi ricordi doveva essere veramente una città splendida e gradevolmente vivibile.
Ricordiamo che la signora Lucia era del 1891 e – quindi – le prime narrazioni che ci tramanda riguardano gli anni a cavallo del 1900. Lei (abitava in Via Mazzini) ci parla del suo canton, il suo rione, quel piccolo mondo che l’aveva ospitata bambina e che descrive come un microcosmo, quasi un paese gradevolissimo da viverci e dove tutti si conoscevano. Dalle sue parole trapela il fascino di un luogo lontano e ormai estinto, con tutta la ricchezza di abitudini, di comportamenti e di sentimenti della gente di allora.
In questa nuova pagina, che ho scelto di leggere ai miei lettori, la nostra Lucia ci racconta la sua chiesa, la Chiesa del Carmine.
“La mamma ci aveva educati con principii religiosi. La nostra parrocchia era la chiesa del Carmine in via Guasco. Lì la mamma ci fece battezzare tutti, e tutti abbiamo presi i due sacramenti successivi, cresima e comunione. Ricordo la chiesa ai miei tempi, e ancora prima del restauro recente: era desolata e triste e buia. Quando vi si entrava pareva una catacomba fredda e umida, il pavimento tutto sconnesso e sempre bagnato per l’umidità che usciva tra le piastrelle tutte rotte. Le pareti erano quasi senza intonaco, lasciavano trasparire i mattoni ed erano quasi del tutto cancellate le grandi strisce bianche e nere delle pareti. Tutto questo dava un’aria lugubre e tetra. Solo durante la Pasqua e precisamente per il Santo Sepolcro, tutto era intonato ed in carattere per la circostanza. L’addobbo era ben fatto, non vi era nulla da dire ma ciò che dava maggior risalto era l’ambiente freddo e tetro come si conveniva ad un sepolcro. Nessuno scenografo o regista avrebbe fatto meglio.
Entrando nella chiesa da via Guasco, a sinistra in fondo vi era una porta che si apriva su di un corridoio che portava in sacrestia. Questa era bella, luminosa e ben arredata con immensi armadioni in noce che custodivano i paramenti e altro per il servizio della S. Messa o per altre funzioni. Questo corridoio a destra aveva un crocifisso di legno di grandezza forse più del naturale e sotto un inginocchiatoio per i fedeli. Nessuno mancava di entrare in questa parte appartata della chiesa ove nel silenzio si poteva meglio pregare con più raccoglimento. Dicevano che artisticamente, quel Cristo, fosse un pezzo pregiato. Erano tanti i fedeli che si raccomandavano a quel Gesù crocefisso che il piede trafitto e precisamente il pollice era consumato per le continue dimostrazioni di venerazione. Del resto anche la statua di S. Pietro a Roma, pur essendo di bronzo, quella pure ha il piede che sporge dalla tunica consumato. Chissà se quel Crocefisso è ancora al suo posto! In fondo a questo corridoio si voltava a sinistra ove ci si trovava in un altro lungo corridoio che sbucava in via Savonarola. La canonica era a metà di questo, e con una scaletta si saliva un piano e ci si trovava nella bella dimora del parroco, dico bella perché sporgeva su di un bel giardino pieno di fiori e di frutta sollevando lo spirito dall’oscurità della chiesa.
Sono stata a vedere frettolosamente questa mia vecchia parrocchia dopo i restauri fatti a dovere. Non sembra più la stessa pur conservando fedelmente il suo stile gotico. Anche i quadri e le statue negli altari laterali hanno preso un aspetto diverso e tutto sembra più bello, più artistico. Anche il quadro delle anime del purgatorio a sinistra appena entrando, che prima era lugubre, almeno così lo vedevo io, ora pur essendo sempre lo stesso, è più luminoso e persino le anime purganti che in esso sono rappresentate sembrano meno sofferenti.”
Attraverso queste pagine la Scrittrice ci narra non soltanto la geografia di una chiesa, che forse pochi alessandrini conoscono bene, ma – soprattutto – l’aspetto suggestivo di questo luogo e – seppure in minima in parte – un brandello della sua storia.
Casualmente mi ritrovo in raccolta un paio di cartoline d’epoca che fanno proprio al caso nostro e servono ad evidenziare graficamente ciò che più sopra è raccontato.
La prima ci regala lo scorcio di via dei Guasco, in cui si può osservare – da buona posizione – proprio la facciata della chiesa del Carmine. Questa cartolina fu spedita nel 1935 e l’immagine può essere antecedente di qualche anno. Fu prodotta dalla Edizioni S. A. Cartiere dei fratelli Vismara.
La seconda cartolina, stampata dalla Tipografia S. Lega Eucaristica di Milano, rappresenta addirittura l’interno dell’edificio religioso, immortalato intorno agli anni ’20.
È un vero peccato che quasi la totalità delle antiche cartoline non abbiano traccia del fotografo che aveva eseguito gli scatti.
Arrivederci alla prossima settimana!