Il Caffè Pasticceria Boratto e Lucia Lunati #5 [Un tuffo nel passato]

frisina_caldi Tony Frisina.

Collezionare cartoline d’epoca può far male al cuore!

Chi, come me, colleziona in particolare cartoline di Alessandria – non solo per la gioia del possesso ma per poter avere almeno l’amara soddisfazione di comprendere quanto fosse bella questa città – può soffrirne e forse anche ammalarsene.

Fa male al cuore vedere (grazie alle cartoline d’epoca) quanti bei palazzi e quanti meravigliosi ritrovi di questa Città siano stati inghiottiti da assurde speculazioni o rovinati da incuria, dal cambiamento causato dalle mode e forse ancora per altre misteriose cause. Per non parlare di strade e piazze lasciate al totale degrado o malamente rifatte, rattoppate o – peggio ancora – restaurate con discutibile gusto estetico…

Questo male al cuore è un accidente che nemmeno il più bravo dei cardiologi (me ne perdoni il mio amico dottor Ivaldi) può porvi cura o rimedio.

E così accade ogni volta che si sfogli una vecchia rivista, che si osservino le immagini su libri del tempo che fu o che si analizzino antiche cartoline. Si avverte un tuffo al cuore appena si scopre come fossero stati meravigliosi alcuni angoli di questa città ormai ridotti a ruderi o trasandati e trascurati da anni di abbandono e di incuria. A questo proposito si veda – come mero esempio – l’antico Palazzo De Paolini di Piazza Santa Maria di Castello, donato dall’omonima facoltosa famiglia per il totale beneficio dell’Istituto Sordomuti. Si osservi in quali pietose condizioni giaccia e poi ognuno ne tragga le conclusioni che vuole… sperando che poi davvero non gli necessiti un cardiologo

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Continuando a leggere le belle pagine de La mia cara Alessandria di Lucia Lunati ho pensato di proporre al paziente lettore qualche gustoso aneddoto raccontato dall’arzilla signora.

La nostra Lucia narra alcuni dei suoi ricordi relativi ad un locale molto famoso ed in voga tra l’Ottocento ed il Novecento, che aveva sede proprio nel cuore della città. Il Caffè Pasticceria Boratto.

È bello cogliere l’occasione per far notare che Piazza Rattazzi, come la definisce la nostra deliziosa scrittrice, ufficialmente non abbia avuto mai questa denominazione. È così; per gli alessandrini (oltre che Piasa ‘dla lën-na o Piasa dèl Cumën) era Piasa RatàsPiazza Rattazzi – ma il suo vero titolare, in realtà, era re Vittorio Emanuele II.

Voglio ancora ricordare che la Pasticceria Boratto fu aperta nel 1846 da Domenico Boratto, originario di Piverone, piccolo comune in provincia di Torino. Alla sua morte (1882) l’attività fu continuata con capacità e con tanto impegno dai suoi figli Alfredo e Maurilio. 1

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È interessante sapere che nel Cinquantenario dell’attività i signori Boratto avessero voluto celebrare l’evento con la stampa e la pubblicazione di un interessante volumetto sulla storia della città durante quei cinquant’anni. Alessandria nel mezzo secolo dal 1846 al 1896 è il titolo dell’interessante opera tipografica.

Questo fatto è stato fondamentale per avermi suggerito l’idea di compiere un’analoga operazione quando, nel 2015, la Pasticceria Gallina festeggiò i suoi primi Ottanta anni di attività. L’attento lettore di questo fatto certamente avrà memoria per aver letto la notizia proprio in questa mia rubrica settimanale. La pubblicazione che avevo dato alle stampe ha titolo Quaderno Alessandrino – Operazione nostalgia n° 2.2

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Ritengo doveroso ricordare che negli stessi locali della prestigiosa Pasticceria Boratto, in anni più recenti, aveva collocazione un altro rinomato locale. Il prestigioso Caffè del più famoso Gigi Capra, personaggio di cui tanti anziani alessandrini avranno certamente memoria.

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Mi auguro di cuore, a questo proposito, che qualcuno dei miei lettori voglia arricchire queste memorie con notizie o fatti sconosciuti ai più o prossimi ad essere dimenticati.

Ed ora passo la parola o – meglio – la penna alla signora Lucia Lunati:

“Sulla piazza Rattazzi vi era situato, all’angolo della via detta «Crosa», il caffè pasticceria Boratto, sede di una scelta clientela a quei tempi. La Boratto era nominata e specializzata  per il suo cioccolato in tazza, consumazione allora molto di moda. Faceva il servizio per i banchetti di nozze e di alle cerimonie o liete circostanze. Quel famoso cioccolato che nessuno sapeva imitare e che tanti andavano a prendere per servire anche in casa prese tanta rinomanza che all’epoca della Tosca di Puccini il popolino con un pizzico di licenza poetica aveva messo in giro sull’aria della accorata romanza finale questo ritornello.

«L’ora è finita
Io muoio disperato
Per non aver mangiato
Il cioccolato di Borato».

D’estate metteva fuori le piccole e graziose sedie imbottite di velluto rosso che ricordavano quelle del Florian di Venezia o del caffè Greco di Roma. Chi arrivava presto dopo la musica, poteva avere un posto per consumarvi qualche granita al caffè, anche questa sua specialità, oppure un tamarindo o il «panerone», una specie di latte gelato un po’ granito che si sorbiva con la cannuccia di paglia.

Era per noi troppo di lusso andare a prendere il gelato da Boratto ed allora si ripiegava su quello più economico di Pedoca.

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Sorgeva questo baraccone sul lato della piazza prospiciente il Municipio. Allora il viale che la circonda molto ombroso era appena piantato e le piccole fragili pianticelle non facevano nessuna decorazione e tanto meno ombra.

Questo Pedoca, che mai seppi perché così si chiamasse, era un gran bravo gelatiere per quei tempi, intraprendente, che ci sapeva fare. Chissà perché come richiamo aveva messo sul banco in bella vista un barilotto con sopra a cavalcioni «Gianduia» col suo vestito caratteristico, giacchetta a marrone orlata di fettuccia rossa, panciotto verde col tricorno marrone più scuro e orlato pure di rosso.  Non ho mai capito perché invece di Gianduia non avesse messo al suo posto il nostro Gagliaudo con tanto di mucca piena zeppa di grano come voleva la leggenda, e magari con una massaia che la mungesse ove ricavarne dopo il prelibato gelato. Sarebbe stato ben più in carattere, no?

La faccia rubiconda di Gianduia voleva dimostrare forse la bontà del gelato che teneva nel piattino da una mano e dall’altra il cucchiaino colmo nell’atto di portarselo alla bocca con evidente piacere”.

E con queste righe mi congedo dai miei lettori fino alla prossima settimana.
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