di Riccardo Pizzorno
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Raccontano alcuni testimoni (o forse è una leggenda) che nel 1980, durante la campagna elettorale per l’elezione del Presidente Reagan, il giovane economista Arthur Betz Laffer gli espose la sua teoria circa la gestione dell’economia nazionale, durante una cena, scarabocchiando su di un tovagliolo la sua celebre Curva, per potergli far capire meglio i suoi postulati. Nella stessa conversazione, consigliò al Candidato Presidente della Repubblica Americana di diminuire l’aliquota delle tasse per avere maggior reddito. A molti sembrò una bestemmia.
Reagan invece, lo prese sul serio ed appena eletto cambiò il sistema della tassazione. L’America respirò e l’economia volò.
Anche la Teachter, primo ministro inglese si adeguò a tali idee, con indubbio vantaggio per l’economia del suo paese. I risultati raggiunti dalle due grandi democrazie occidentali sono cronaca al giorno d’oggi ma, pare, non abbiano trovati epigoni nel resto dell’Europa.
La teoria, non era sostanzialmente nuova; metteva in pratica vecchi principi di Keynes e veniva fatta risalire, nelle parole dello stesso Laffer, persino ad uno studioso del 1400, tale Ibn Khaldun ed in realtà è intuitiva; più soldi disponibili si ha in tasca, più si ha la possibilità di spendere. Elementare.
Con questa “curva a campana” l’economista sosteneva che quando la tassazione superava una certa soglia provocava non un aumento bensì una diminuzione del gettito per le casse dello Stato. Laffer diceva che esiste un livello del prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente e il gettito è destinato a diminuire fino ad azzerarsi, nell’ipotesi in cui il prelievo raggiunga il 100% del reddito.
In sostanza, dato un sistema di assi cartesiani, se indichiamo sull’asse delle ascisse la pressione fiscale (PF) e su quello delle ordinate il gettito (G), spostandoci verso destra si nota come, all’aumentare della pressione fiscale (PF1), il gettito cresce (G1) fino ad un livello massimo (GMAX con pressione fiscale PF*), ma successivamente, all’aumentare della pressione fiscale (PF3), il gettito inizia a decrescere (da GMAX torna a G1) fino al suo azzeramento (PFMAX = Gettito zero).
L’obiettivo del grafico è quindi quello di dimostrare che esiste un livello di tassazione che genera il massimo del gettito (ossia PF* = GMAX) oltre il quale l’attività economica non è più conveniente, pertanto qualora lo Stato aumenti la pressione fiscale oltre detto limite (cioè quando la pressione fiscale passa da PF* a PF3) si ha la conseguenza di un minore gettito (da GMAX a G1), ossia minori entrate fiscali per le casse dell’erario, fino al suo azzeramento (PFMAX = Gettito zero).
In parole semplici, la curva ci vuole dimostrare che, quando le tasse sono troppo alte e superano una determinata soglia entro la quale è conveniente svolgere l’attività economica, i soggetti economici troveranno conveniente cessare o ridurre l’attività economica stessa (con conseguenze negative non solo sul gettito ma anche sul PIL e sull’occupazione) oppure dar vita a comportamenti quali l’elusione e l’evasione fiscale, con la diretta conseguenza – in ogni caso – che le entrate fiscali per le casse dello Stato diminuiranno considerevolmente.
Per quanto non direttamente riconducibile ad un’osservazione empirica, il che è poi è il vero tallone d’Achille dell’intero teorema, la “verità scientifica” accreditata dalla “curva di Laffer” poggia su principi economici elementari: vale la legge della domanda e dell’offerta e vale il principio del costo opportunità. In altre parole, esiste un punto oltre il quale la pressione fiscale non rende più conveniente una certa impresa economica a meno di incentivare l’imprenditore a riorientare l’investimento.
Posto che, secondo l’evidenza classica, il massimo che un consumatore è disposto a pagare per un determinato bene viene detto “prezzo di riserva”, se un individuo è disposto a pagare 100, ma ottiene infine lo stesso bene a 70, avrà un surplus (qui più che altro psicologico) di 30.
Il surplus (o rendita) del contribuente si atteggerebbe, invece, a differenza positiva effettiva fra il quantum, in termini imposte, che un individuo-produttore è disposto a pagare allo stato per ricevere in cambio.
Il “modello” proposto da Laffer colloca tale possibilità, quale dato oggettivo, nella dinamica di ogni sistema impositivo, al cui interno appunto si ritrova un limite naturale di efficienza.
Sul piano strutturale, inoltre, esso apre la porta ad almeno TRE concetti chiave:
1) distribuzione del gettito in funzione della pressione fiscale: maggiore è l’imposta, maggiore è l’evasione, per cui ad un aumento delle imposte “oltre limite” corrisponde una diminuzione del gettito fiscale, per effetto di “auto protezione”;
2) tra le due “aliquote limite teoriche” di un sistema di tassazione, 0 e 100, ambedue a gettito zero, c’è il gettito massimo, rappresentato dall’aliquota di equilibrio, che assicura il massimo di efficienza del sistema;
3) una seria politica fiscale deve porsi l’obiettivo di ridurre le imposte sul reddito sino al break point fiscale, generando in tal modo il massimo del gettito ottenibile col minimo sacrificio necessario.
La domanda a cui nè Ibn Khaldun nè Laffer rispondono è ovvia: qual’e’ la percentuale di tassazione che ottiene il massimo degli introiti? Non è nemmeno chiaro se di queste percentuali ce ne sia una sola, probabilmente anzi ce n’è più di una perchè come detto di tributi ce ne sono per tutti i gusti e a tutti i livelli.
Alcune valutazioni empiriche parlano di un 65/70% del reddito totale , ma non si specifica come dovrebbe essere distribuito tra le diverse categorie possibili.
La curva è pertanto un semplice strumento per valutare in termini macroeconomici la convenienza della variazione delle tasse. Il problema è che appunto agisce in termini macroeconomici, cioè esaminando la tassazione globale: non è quindi possibile usarla per previsioni puntuali, ad es. fare delle stime sulla variazione di un singolo tributo.
Può essere ragionevolmente utile solo per stimare se la tassazione globale è ottimale, nel senso del “minimo indispensabile”, ma si può essere più precisi esaminando il passivo dello stato patrimoniale.
Venendo ora al tema di questo scritto, l’applicazione della Curva di Laffer in Italia ci invita ad analizzare le vicende fiscali degli ultimi anni ed i risultati in termini di macroeconomia conseguenti alle scelte dei vari Governi che disgraziatamente sono intervenuti nel campo.
Osservando le serie storiche, fin dal 1980 s’è assistito a una continua ascesa della pressione fiscale senza che questa si trasformasse in un miglioramento dei servizi o in nuovi investimenti pubblici.
Una analisi più attenta ci potrebbe far notare come il trend si sia invertito nel 1998–2005 e nel 2010–2011, per poi subire un’accelerata coi governi Monti e Letta. In ogni caso, dal grafico qui di séguito è facilmente osservabile come l’andamento del tasso di crescita del Paese, soprattutto negli ultimi anni, quando la pressione fiscale s’è attestata sopra il tasso psicologico del 40% del PIL, sia strettamente correlato inversamente all’incremento delle aliquote di prelievo, che fungono da autentici stimoli alla crescita, in caso di riduzione, o alla stagnazione e alla recessione, in caso contrario.
La struttura economica italiana, pur fiaccata da un sistema fiscale, burocratico e giudiziario poco adeguati ad un giusto ambiente produttivo, è riuscita a crescere, pur meno della media degli altri Paese della sua importanza, quasi in modo continuo.
Nei ventidue anni considerati nelle tabelle di cui sopra, il PIL è cresciuto sensibilmente, pur subendo una battuta d’arresto con la crisi finanziaria scoppiata col fallimento di Lehman Brothers, per poi ricominciare con una buona ripresa nel 2010 e ricominciare a scendere sensibilmente nel 2011. Non è un caso che queste date coincidano con le manovre economiche piú penalizzanti, volte a «far cassa» senz’alcuna compensazione per il sistema produttivo. Inoltre, l’unico precedente storico di decrescita cosí repentina e traumatica s’ebbe con la finanziaria “lacrime e sangue” del governo Amato nel 1992.
Questa lunga premessa è utile per comprendere le vere cause della crisi che l’Italia sta vivendo. L’elevato carico fiscale, giunto a livelli record mondiali, è il primo motivo per cui l’economia interna è giunta ormai a uno stato di depressione. Non è un caso che i dati sul gettito odierni siano particolarmente preoccupanti, segnalando non solo una (speriamo arrestata) decrescita nelle imposte sui consumi e nelle accise (che già si verificò sotto il governo Monti), ma che la diminuzione è generalizzata in ogni voce d’incasso.
Come si può vedere compulsando la Curva di Laffer, la pressione esistente sui contribuenti italiani, 44% nominale, ma oltre il 65% reale sulle PMI, sposta il livello d’efficienza del sistema erariale sul lato destro e discendente della curva, cosicché gli stessi livelli di gettito sarebbero possibili con una pressione fiscale media decisamente inferiore, anche inferiore al 30%, cosa che permetterebbe d’ampliare la base imponibile, col rientro di diversi attori sui mercati che oggi o hanno delocalizzato o ne sono usciti per la mancanza di convenienza a partecipare.
Per portare l’ultimo esempio eclatante delle distorsioni prodotte dal nostro sistema tributario, la Fiat, ora FCA (Fiat Chrysler Automobiles), che per decenni ha rappresentato l’azienda italiana per eccellenza, non lo sarà più, le tasse le pagherà in Inghilterra con buona pace dei Governanti italiani, che saranno costretti a rinunciare agli introiti di una grande fabbrica.
Un progetto organico di riduzione della Spesa Pubblica (oggi piace chiamarlo “Spending Review” ) si dovrebbe basare su presupposti piuttosto semplici ma destinati a liberare le forze produttive dai “lacci e laccioli” che le amministrazioni sinora succedutesi hanno posto, bloccando la capacità di crescita della Nazione:
1) riduzione della crescita del debito pubblico;
2) riduzione delle tasse sul lavoro e sui redditi da capitale;
3) riduzione della regolamentazione dell’attività economica;
4) controllo dell’offerta monetaria e riduzione dell’inflazione. Sembra una banalità, giacché i punti richiamati sono quelli che hanno animato le campagne elettorali per oltre un ventennio; ma, in effetti, essi non sono mai stati realizzati, anzi spesso l’azione delle maggioranze di governo s’è orientata in segno diametralmente opposto.
Qualcuno potrebbe obiettare che riforme del genere porterebbero a un nuovo effetto recessivo per la riduzione della spesa e che l’intervento dello Stato è necessario per mantenere i livelli di benessere e per rilanciar la crescita, magari meramente “stampando moneta”, senza effettuare delle vere riforme che liberino l’azione dei mercati. Osservando l’evoluzione del PIL americano e di quello italiano negli ultimi quarant’anni, si fa fatica a dar loro ragione:
La linea blu rappresenta la crescita americana, piú o meno continua e lineare fino al caso Lehman, per poi ripartire col medesimo trend di crescita già dal 2010. Quella verde rappresenta l’Italia, che ha seguíto un trend simile, anche se con percentuali ben piú contenute, fino all’ultimo shock fiscale del 2011. Il grafico piú indicativo è, però, quello del PIL pro capite:
Qui la differenza è assai chiara: mentre la ricchezza pro capite americana aumenta costantemente, quella italiana cresce quando lo Stato s’intromette di meno nella vita dei cittadini e stagna o decresce coll’aumento della pressione fiscale e dell’interventismo. Le riforme di Reagan, come quelle della Thatcher in Gran Bretagna, non sono mai state messe in discussione neppure dai governi di segno opposto, mitigandone qualche aspetto, magari, ma senza mai scardinarne il modello. E i risultati sul sistema si vedono. Forse è il tempo di scegliere se prendere a esempio questa straordinaria esperienza o continuare sulla via del declino.
L’Italia invece sembra voglia continuare a seguire uno schema che porta al disastro: il debito continua ad aumentare, fino al livello record di qualche giorno fa di quasi 2.170 miliardi d’euro; la pressione fiscale aumenta, fino al record storico del 50,3% del PIL nel Q4 del 2014; la disoccupazione è piuttosto stabile, sulla doppia cifra percentuale del 12,6% ad Aprile (come a Gennaio ma con in più il Jobs Act); i mercati finanziari continuano a crescere, incuranti dei fondamentali.
La grande novità, in questi mesi, è però data dall’avvio del programma di QE da parte della BCE, e dal conseguente indebolimento dell’euro rispetto a USD e CHF, dovuto principalmente alle aspettative su un rialzo dei tassi da parte della Fed e all’eliminazione del peg sulla valuta svizzera. Le conseguenze più visibili si possono individuare nei dati della bilancia commerciale del Paese, che a Marzo ha registrato un dato positivo per 4 miliardi d’euro, aiutato anche dalla grande crescita delle esportazioni extra UE; al netto dei costi d’approvvigionamento energetico, la bilancia commerciale segna un avanzo d’oltre 16 miliardi d’euro, cosa che ha fatto esprimere, da parte di più di un commentatore, un moto di soddisfazione, come se il Paese fosse uscito dalla depressione in cui è caduto fin dal 2011. Lo stato vero della salute, però, si può intuire dall’andamento delle entrate erariali, che dipingono un altro scenario.
Nonostante le reboanti dichiarazioni del presidente del Consiglio sul “cambiamento di rotta” dell’azione di governo con l’avvio di un progressivo allentamento della pressione fiscale, a fine 2014 s’è registrato il record di pressione “nominale” del fisco sul PIL, cosa che ha portato la pressione “reale” (depurata, cioè, del calcolo spannometrico del tasso d’evasione fiscale inserito nel computo del PIL) al 60,6%. A rigor di logica, un aumento così ingente del prelievo, terminata la fase recessiva, dovrebbe portare a un incremento degli introiti dello Stato, ma la situazione è assai differente.
L’Agenzia delle Entrate, elencando l’andamento degli incassi da Imposte Dirette, dichiara che nel periodo Gennaio – Marzo 2015 il gettito IRPEF si è attestato a 44.216 milioni di euro (+169 milioni di euro, pari a +0,4%), quello dell’IRES è risultato pari a 674 milioni di euro (–374 milioni di euro, pari a –35,7%), dall’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi nonché ritenute sugli interessi e altri redditi di capitale sono affluiti 2.061 milioni di euro (+280 milioni di euro, pari a +15,7%) con un forte calo degli interessi pagati dalle Banche sui depositi.
Parlando delle Imposte indirette, nel periodo Gennaio – Marzo 2015 le entrate IVA sono risultate pari a 20.517 milioni di euro (–501 milioni di euro, pari a –2,4%).
L’andamento di un trimestre solo non è sufficiente per descrivere una tendenza annua, ma, riferendosi al periodo dove s’è verificato un balzo record delle pretese erariali, rappresenta un risultato piuttosto significativo, soprattutto se osservato nelle sue componenti principali. Un appunto a margine: il gettito IRES, quello portato dagli utili delle Imprese, nel trimestre considerato è calato del 35,7%. Se pensiamo che tali soggetti sono quelli che dovranno creare occupazione, qualche preoccupazione possiamo provarla senz’altro.
La cosa interessante è che il bilancio previsionale che uscirebbe dall’ultimo DEF porterebbe a un incremento delle entrate nei prossimi due anni a 540,59 miliardi d’euro per il 2016 e a 556,502 miliardi per il 2017; il che vuol dire un incremento del 4,62% per il 2016 sul 2015 e del 2,94% per il 2017 sul 2016. Facendo due calcoli, prevedendo una crescita per quest’anno dello 0,5% e di un 1,5% per il 2016, sembra evidente che, per mantenere questi livelli di crescita delle entrate, sia necessario o un ulteriore inasprimento fiscale o un innalzamento ulteriore del debito, che poi altro non sarebbe che una posticipazione del prelievo fiscale a data da destinarsi.
Vorremmo a questo punto ricordare l’effetto di due provvedimenti fiscali del geniale Governo Monti:
1) Il superbollo per le auto cosiddette di lusso (sopra i 185 cavalli fiscali). Ci si attendeva un gettito di 168 milioni. L’Unrae (associazione costruttori) ha stabilito che il Tesoro nella migliore delle ipotesi abbia perso con il provvedimento più di 110 milioni in mancata Iva, imposta provinciale e bollo, grazie al fatto che si sono polverizzate le vendite di auto nuove sopra quei cavalli fiscali. Siccome parliamo dell’1 per cento del parco auto in Italia, parliamo di una fascia di popolazione abbiente, meno colpita dalla crisi. Ma che non ha alcuna voglia di farsi fermare ogni tre secondi dalla Finanza e di essere vessata con il superbollo. Su 210mila auto cosiddette di lusso già immatricolate, 40mila presero immediatamente il largo verso Paesi stranieri. E anche in questo caso si è persa la manutenzione, i ricambi, i bolli che non frutteranno più un centesimo al nostro erario. Una somma difficile da quantificare e che rende il bilancio del superbollo negativo per le casse del nostro Tesoro.
2) Il Governo Monti introdusse, tra le altre, una pesante imposta di possesso sulle barche da diporto. Nel 2012 erano state previste entrate pari a 155 milioni di euro. Quanto ha incassato lo Stato in quell’anno? Circa 24 milioni di euro. Una cifra tutto considerato risibile se confrontata con gli effetti che la tassa ha provocato, e ancora provocherà sull’economia del mare, con un impatto negativo anche in termini di finanza pubblica. Essa infatti ha spinto i proprietari di barche e/o di posti barca a comportamenti conservativi. Non è un caso che si sia avuta una “fuga” delle barche verso i porti della Corsica, della costa monegasca o di quella croata. Grecia e Turchia, Spagna e Slovenia si sono attrezzate per accogliere i “diportisti”; alcuni osservatori hanno parlato del 20% delle imbarcazioni, altri di circa 30.000 natanti. Difficile dirlo ma appare ragionevole supporre che almeno il 10%-12% delle barche con lunghezza superiore ai 12 metri si sia spostata verso coste meno costose. Si tratterebbe allora di circa 2.000-2.500 imbarcazioni che hanno delocalizzato la loro base principale.
Le conseguenze sono evidenti. Una barca che si sposta magari non sfugge alla tassazione ma certamente esporta una fetta di economia e di fatto riduce il suo contributo alla fiscalità generale. Il personale e i servizi di bordo o di terra sono assicurati in terra straniera e in terra straniera sono versate le tasse.
Basti pensare al rifornimento di carburante e al fatto che il carico fiscale su benzina e gasolio pesa circa il 60% del prezzo pagato. Se come è naturale si aggiungono le spese alimentari, lo shopping, i servizi di manutenzione… Secondo una ricerca della Fondazione Censis relativamente al 2009 il settore legato alle imbarcazioni da diporto ha generato un valore della produzione vicino ai 3,4 miliardi di euro. Oggi sarebbe stato superiore, se fosse rimasto da noi.
Pensiamo infine a cosa potrebbero causare la varie “clausole di salvaguardia” che entrerebbero (entreranno?) in vigore nei prossimi anni. Ricordiamo che (oltre ad alcune accise, sempre presenti) si prevede l’aumento dell’IVA “ordinaria, dal 22% attuale al 25,5% a regime. Stessa percentuale di aumento per il regime al 10% che passerebbe al 13%. Federconsumatori e Confcommercio si sono affrettate a fare due conti, nel caso in cui non si trovassero le coperture necessarie. E gli scenari delineati sono a dir poco inquietanti.
L’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha calcolato una stangata pari a 842 euro a famiglia. Secondo i conti effettuati, la spesa maggiore sarebbe di 266 euro con il passaggio dell’IVA dal 10% al 13% e di 461,18 euro in più per il passaggio dal 22% al 25,5%.
Un aumento di 28 euro sarebbe inoltre dovuto alle ricadute dirette dovute all’incremento delle accise sui carburanti (a regime) ed altri 87 euro alle ricadute indirette per l’aumento dell’IVA su gas, elettricità + accise sui carburanti (che incidono su costi di produzione e costi di trasporto) a regime.
L’Ufficio studi di Confcommercio ha lanciato un allarme ancora più preoccupante: l’incremento dell’Iva potrebbe determinare un crollo dei consumi delle famiglie italiane per 65 miliardi di euro nel triennio 2016-2018. L’incremento dell’imposta andrebbe a colpire la maggior parte dei beni e dei servizi, rivelandosi un’arma a doppio taglio: pur avendo come obiettivo l’aumento del gettito nelle casse dello Stato, rischierebbe di contrarre ulteriormente i consumi degli italiani. I cittadini subirebbero un rincaro dei prezzi stimato nel 2018 pari al 2,5 per cento più alta rispetto al 2015, con un conseguente calo dei consumi, contrazione del reddito e un’ulteriore riduzione dell’occupazione.
La Curva di Laffer quindi, pur con i suoi limiti tecnici, focalizza ampiamente un problema che in Italia è più che mai attuale: la cattiva volontà di riorganizzare il Bilancio Pubblico, razionalizzando le spese prima di aumentare i prelievi. Non può definirsi diversamente il gioco di attribuire la Spending Review ad un Soggetto sempre terzo al Governo (il cattivo di turno) per poi allontanarlo e non applicarne i precetti, mostrando così che si sono voluti salvare i percettori di rendite che ne avrebbero risentito. Il tutto sempre per fini elettorali.
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