In Italia il football americano è arrivato negli anni Ottanta, con le tivù commerciali. Gli appassionati allora sono diventati, in grande maggioranza direi, tifosi dei Raiders: per le divise nere e grigie, il simbolo dei corsari, il fatto che fossero i più bastardi (e al tempo stesso pittoreschi) di tutti sul campo, e che all’epoca vincessero, cosa che peraltro hanno presto smesso di fare senza più ricominciare.
Nati a Oakland, migrati a Los Angeles negli anni Ottanta, e lo spostamento coincise sia con il crollo dei risultati sia con una popolarità di culto tra i ragazzi delle gang dei quartieri più degradati, tornati a Oakland nel ’95, pochi giorni fa é stato approvato il loro trasloco a Las Vegas, prima grande squadra di uno dei tre maggiori sport professionistici americani ad andare a giocare in una città nota per il gioco d’azzardo (che come sappiamo, anche se poi lo dimentichiamo per ragioni di sponsor, non è il miglior amico dello sport).
Il nomadismo, in uno sport come quello professionismo americano che non conosce le retrocessioni, è diffuso. Qualcosa di impensabile da noi, almeno nel calcio: vi immaginate, che so, una Sampdoria Trieste o un Chievo Agrigento? Poi, se proprio vogliamo fare i difficili, il Sassuolo da anni gioca a Reggio Emilia e non più nel paese da cui prende il nome, nome che peraltro non ha cambiato, insomma ha fatto una rilocalizzazione senza dirlo troppo in giro (all’italiana).
Una delle cose curiose del trasloco epocale dei “corsari” è che i Las Vegas Raiders, per i prossimi due anni, giocheranno a… Oakland, nella vecchia sede, in attesa che il nuovo stadio sia pronto. Di nuovo, vi immaginate i nostri tifosi come tratterebbero per due anni la propria squadra, sapendo che stanno per vederla andare via?
I ragazzi dell’estate
“Caro Frank, le sarei grato se mandasse Nora e le bambine in chiesa a dire una preghiera speciale per i signori Gilliam, Reese, Snider, Campanella, Robinson, Hodges, Furillo, Newcombe e Labine che tutti insieme compongono la squadra dei Brooklyn Dodgers. Se perdono questo campionato io… io mi ammazzo. E lei cosa farà senza di me?”
Così scrive Helene Hanff, l’autrice del bellissimo, struggente ‘84 Charing Cross Road’ (portata al cinema meravigliosamente da una straordinaria Anne Bancroft) al proprio corrispondente “british” Frank P. Doel, nell’autunno del ’55 prima dell’inizio di una sfida delle World Series tra i Brooklyn Dodgers e i detestati New York Yankees.
Solo due anni dopo sarebbe venuta la più crudele delle fini. Altro che happy ending. Altro che… ammazzarsi. Walter O’Malley, proprietario dei Dodgers di Brooklyn, la squadra di baseball che era il bene più prezioso del “quartiere” popolare di New York, si conquistò il ruolo dell’arci-cattivo portando la squadra sull’altra costa, a Los Angeles, spezzando il cuore a tre milioni di innamorati abbandonati.
Una storia d’amore, finita con un trasloco, raccontata in uno splendido libro, ‘The boys of summer’, i ragazzi dell’estate, dallo scrittore e giornalista Roger Kahn. E per dire quanto il baseball è stato importante nella letteratura americana contemporanea, proprio con una partita dei Brooklyn Dodgers inizia uno dei suoi grandi romanzi, ‘Underworld’ di Don DeLillo.
La Superga non c’è più
Come detto da noi non si rilocalizzano le squadre di calcio. Peró non è così negli altri sport, e ad Alessandria lo abbiamo imparato sulla nostra pelle, quando verso la fine degli anni settanta prima ci esaltammo per le prodezze della Vibac divenuta Superga (da noi, lo sapete, le squadre di basket si chiamano come i loro sponsor, e un avvicendamento in corsa tra finanziatori comportò il cambio di denominazione), per vedere la squadra promossa in serie A dopo una fantastica galoppata, ahinoi proseguita in direzione Mestre, portata là dal patron Celada con tanto di sponsor, coach Mangano e qualche giocatore.
Una storia finita e mai più ripresa, perché da allora il basket maschile a quel livello non l’abbiamo purtroppo visto più, che resta nella memoria dei tanti che affollavano le gradinate del palazzetto (chi scrive é tra questi), e nel ricordo dei giocatori locali che si fecero onore in quelle due stagioni irripetibili, come il compianto Ernesto Cima cui è ora intitolato proprio il palazzetto o Alberto ‘Poto’ Del Sarto (nella foto il secondo accosciato da sinistra).