di Andrea Antonuccio.
«Nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula»
Giuliano Poletti, ministro del lavoro
Mi trovo un po’ a disagio a commentare le recenti esternazioni del ministro Giuliano Poletti, pronunciate (pare) dal medesimo durante un convegno a Bologna sull’alternanza scuola-lavoro. Non so bene che cosa pensare.
Intanto partiamo da qui, dall’alternanza scuola-lavoro. Un progetto che ha come obiettivo (meritorio) quello di far “assaggiare” ai giovani le dolcezze (poche) e le asprezze (tante) del mondo del lavoro. Con l’effetto collaterale di far loro apprezzare la possibilità, per nulla scontata, di avere un tempo dedicato allo studio. Cioè, in buona sostanza, all’approfondimento di come è fatta la realtà (ammesso che gli insegnanti lo sappiano, o abbiano voglia di trasmetterlo. Ma questo è un altro discorso…).
Ora, il problema di chi studia è far rendere al meglio le nozioni apprese (di scuola e di vita) nel mondo del lavoro. Studi cinque anni economia? Bene, poi ti aspetteresti di trovare un impiego adeguato, in un contesto che lo sia altrettanto. Ma, come sappiamo bene, dalle nostre parti non è più così. E da un bel po’. I laureati, anche quelli più bravi, devono accontentarsi.
E se è vero che ogni mestiere ha la propria dignità (io da ragazzo avrei voluto fare il cameriere), è altrettanto vero che chi studia architettura, tanto per fare un esempio, al termine degli studi dovrebbe avere qualche possibilità di giocarsela nel proprio settore. Invece, anche quegli impieghi che un tempo (non troppo lontano) erano riservati a chi aveva studiato poco vengono presi d’assalto da frotte di laureati agguerriti.
A meno che (a meno che) non si conosca qualcuno: un vecchio compagno di scuola, il figlio del politico, lo zio imprenditore, oppure il compagno di calcetto (o anche di certe cene di affari) che ti presenta o ti inserisce. Eccoci arrivati, finalmente, al succo del Poletti-pensiero applicato al Belpaese: se non conosci, non cresci. E forse neppure mangi.
Evviva il ministro, che chiama le cose con il loro nome. Abbasso il ministro, che non fa nulla per cambiarle.