Le vicende di Taranto non possono che interessare un territorio come quello alessandrino che in tema di bonifiche ambientali ha il poco invidiabile primato di annoverare due siti inquinati di valenza “nazionale” – Ecolibarna di Serravalle Scrivia ed Eternit di Casale Monferrato – oltre un centinaio, ad iniziare dalla discarica Barco di Castellazzo Bormida, di località da bonificare e per aver avuto ai confini, in Valle Bormida, l’Acna di Cengio. Inoltre la complessa situazione del Polo chimico di Spinetta Marengo, che vede indagati per disastro ambientale sia dirigenti attuali che delle passate gestioni, è tutt’altro che conclusa. Per questo sul caso ritengo sia utile qualche ulteriore riflessione.
Nei confronti dei giudici che si sono occupati dell’Ilva e hanno disposto il blocco della produzione sino a quando l’impianto non sia dotato di adeguate tecnologie antinquinamento, l’atteggiamento del governo e delle principali forze politiche è stato, almeno nella prima fase, di irritazione se non di aperta ostilità. L’esecutivo pareva seriamente intenzionato a impugnare la decisione del Gip sollevando un conflitto di competenze e a preoccupare il governo – sosteneva un po’ a sorpresa il ministro dell’Ambiente Clini – non erano tanto i tassi di inquinamento e i rischi per la salute di lavoratori e cittadini, ma il fatto che le decisioni del tribunale potessero scoraggiare i possibili investitori stranieri dal venire a produrre in Italia. Anche alcune sigle sindacali, per fortuna non tutte, hanno scioperato e manifestato, in nome del lavoro, contro le decisioni della magistratura.
Le notizie emerse nei giorni seguenti, evidenziando in maniera inequivocabile le responsabilità dell’azienda nel continuare ad inquinare dentro e fuori dei suoi cancelli e i comportamenti dei responsabili della società, come minimo, poco trasparenti e lineari, hanno contribuito a cambiare un po’ il clima e ad attenuare l’iniziale isolamento dei magistrati. Che hanno trovato un crescente sostegno tra gli abitanti di Taranto.
Comprendere le ragioni delle posizioni del governo, della maggioranza delle pubbliche amministrazioni e dei principali partiti, nella sostanza, più disponibili e indulgenti nei confronti delle inadempienze delle grandi imprese e meno attente e rigorose verso l’affermazione di un lavoro capace di non compromettere la salute dei lavoratori e dei cittadini, mette in luce nel Paese la distanza che oggi esiste, su questo come altri aspetti, tra i comportamenti concreti e i principi contenuti nella nostra Costituzione. I quali, nella convergenza fra la tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32), affermano la difesa dell’ambiente come valore costituzionale primario, in quanto espressione dell’interesse diffuso dei cittadini; di una Repubblica democratica che si vuole “fondata sul lavoro” (art. 1). A proposito degli avvenimenti che hanno riguardato l’importante impianto siderurgico Luciano Gallino ha scritto che la funzione essenziale delle leggi consiste nell’impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole, constatando che nel caso in questione i giudici di Taranto hanno dato attuazione a tale funzione. Del tutto coerente, specie nel nostro Paese, con le norme e i principi costituzionali. Dal che si dovrebbe dedurre che oggi è la politica e non la magistratura che più di sovente, nei comportamenti e nelle decisioni, si discosta dai contenuti della Costituzione.
Così quello che dovrebbe sorprendere non sono certo le disposizioni dei giudici, doverose e pienamente giustificate dalla legge di fronte alle responsabilità gravissime dell’impresa, ma le insufficienze se non, in alcuni casi, le connivenze delle istituzioni competenti, degli organismi deputati al controllo e dei politici. Si afferma astrattamente la necessità di contemperare il lavoro e la salute, ma in pratica non si fa nulla affinché ciò accada. E il ricatto delle imprese viene subito con eccessiva condiscendenza. A pesare, si dice, sono le nuove condizioni imposte dalla “globalizzazione”. La verità e che a destra, ma sovente anche a sinistra a fare scuola sono le teorie neo-liberiste che, in ossequio al mercato, pretendono l’eliminazione dei diritti dei lavoratori e praticano lo smantellamento dello stato sociale. E poco importa se le stesse sono le principali responsabili della attuale gravissima crisi economica e sociale. Vero è che quando la politica non ha una propria autonoma strategia finisce per subire più facilmente le condizioni dettate dai grandi interessi economici, se non dipendere dai medesimi. Così, come nel caso Ilva, quando dagli organismi di controllo sono state segnalate gravi inadempienze, un peggioramento delle condizioni ambientali o documentati rischi per la salute, invece di utilizzarle per imporre all’azienda miglioramenti strutturali e bonifiche, si è preferito non intervenire. Salvo poi invocare lo scandalo se un’autorità terza, per fermare inquinamento e danni alla salute, impone il blocco delle produzioni.
Quando, poi, anche importanti dirigenti del sindacato affermano, banalmente, che se manca il lavoro non esistono neppure i diritti, nella sostanza si acconsente ad un lavoro nel quale i diritti e le tutele si possono limitare e mettere in discussione. Quindi più facilità per l’impresa a licenziare e minori garanzie per la salute e l’ambiente di chi lavora. Il risultato è un lavoro sotto ricatto e un sindacato indebolito nella sua funzione di contrattare le condizioni e le conseguenze della produzione. Un sindacato che non riesce più ad avere voce in capitolo su temi come l’inquinamento e la salute. Ad ascoltare le dichiarazioni di alcuni rappresentanti sindacali dell’Ilva, comprensibilmente preoccupati per la loro occupazione e la continuità delle produzioni, le giustificazioni per il comportamento dell’azienda si manifestano però in tutta la loro evidenza. Certo è che quando per disciplinare l’attività delle imprese nel campo delle tutele ambientali e della salute la magistratura è costretta ad intervenire si registra, in primo luogo, il fallimento o l’impotenza di tutti gli altri soggetti a vario titolo coinvolti. I titolari delle aziende, ma anche i governi, i soggetti delegati ai controlli e, insieme al sindacato, gli stessi lavoratori. In questi casi più che denunciare occorre fare autocritica. In primis da parte delle imprese e dei governi. E’ del tutto vero che se si ferma la produzione diviene molto più difficile se non impossibile il risanamento e la bonifica, ma per evitare che ciò accada occorre che l’inquinamento sia costantemente sotto controllo, le aziende non considerino più l’uso dei beni ambientali a costo zero e si cessi la pretesa di scaricare su altri: il territorio, lo stato, i cittadini, i danni causati all’ambiente. E l’autonomia degli amministratori e dei tecnici impegnati con i grandi gruppi nella definizione delle “Autorizzazione integrate ambientali” (Aia) deve essere garantita, difesa e sostenuta senza ambiguità dalle Amministrazioni centrali e locali e dalla politica. Da parte delle società il mettere in conto una quota dei profitti (nel caso dell’Ilva le stime degli utili degli ultimi anni parlano di miliardi) per garantire il rispetto dell’ambiente e della salute deve anche rappresentare un adeguamento in fatto di cultura e di rispetto nei confronti delle generazioni future. E che sia possibile produrre in maniera compatibile anche per la siderurgia è dimostrato in Europa dagli impianti di Duisburg in Germania.
Per quanto riguarda il sindacato la straordinaria vertenza dell’Eternit di Casale sta a dimostrare che quando ha saputo porre il tema della salute come un diritto “non negoziabile” è diventato anche il protagonista riconosciuto delle situazioni. Certo quello era il sindacato della “non delega” in tema di salute che contrattava la riduzione dei rischi e la prevenzione nei posti di lavoro e nel territorio. Un sindacato forte e unito, con alle spalle la conquista dello Statuto dei lavoratori e in grado di favorire, nel 1978, l’approvazione della riforma del Servizio Sanitario Nazionale. Oggi, con un sindacato più debole per effetto della crisi e della precarietà del lavoro, positivi segnali in controtendenza arrivano dalla società; dalla maggiore sensibilità che in Europa i cittadini pongono all’inquinamento ambientale – considerato dal 60% al primo posto tra i fattori di rischio – e in Italia dal successo, politicamente trasversale, del movimento per l’acqua pubblica e per la difesa dei beni comuni.
Renzo Penna – Alessandria