Mi riallaccio al saggio di Patrizia Nosengo, docente di storia e filosofia al liceo scientifico Galilei, allieva di Norberto Bobbio a Torino, “La scuola giù per terra: perché gli universitari italiani non sanno scrivere correttamente”. Prima osservazione: è verissimo, ma chi: gli studenti o i docenti? O magari entrambi.
Per esempio l’italiano di Marcello Flores, storico importante e serio, ne “Il genocidio degli Armeni”, il Mulino 2006, consiste in un abuso dell’ipotassi che fa girare la testa; al termine di un periodo di 20 righe, con una punteggiatura discutibile (si studi il “Prontuario“ di Bice Garavelli Mortara, Laterza). Giovanni De Luna scrive con un’eleganza e una leggerezza da letterato; Antonio Gibelli usa una sintassi talvolta pesante ma geometrica. Collotti è linguisticamente impeccabile.
Patrizia ha scritto il saggio che avrei voluto scrivere io quando sono andato in persione, con però una capacità prospettica, un’ ampiezza e strategia espositiva, che oltrepassano le mie forze. Perciò userò un metodo volutamente sghembo e pragmatico, per giungere alle stesse sue conclusioni, che tutte condivido.
La scuola italiana fin dall’Unità è stata la scuola del lamento verticale della piramide rovesciata: i docenti universitari danno la colpa dell’effettiva impreparazione degli studenti alla scuola superiore, i cui docenti la attribuiscono alle medie, i cui docenti la imputano ai maestri elementari, i quali ultimi affermano che la materna manda bambini non prescolarizzati. Al “Saluzzo” istituto magistrale, avevo una collega del tipo ”meno male che ci sono io a tenere in piedi la scuola italiana” e lo diceva pure, la quale usava la tecnica delle denigrazione preventiva, gettando palate di fango sui docenti che l’avevano preceduta. Insegnando al triennio, costei, alla prima riunione utile coi genitori, affermava che la classe aveva fatto una prima disastrosa e che lei si sarebbe impegnata al massimo, guarda l’originalità del lessico pedagogico, per “colmare le lacune e mettere le basi”, ma non poteva garantire di riuscirci. In concreto non sapeva fare la parafrasi dei “Sepolcri” e leggeva le note (lo so perché gli appunti delle mie allieve venivano fotocopiati da alcune delle sue ). A fine anno, naturalmente la classe era migliorata. Che fortuna ad avere un’insegnante così, dicevano i genitori.
L’anticipo di un anno dalla materna alle elementari è stato introdotto dalla ministra Moratti, che lo aveva pensato per le famiglie borghesi, le quali invece avevano già capito (un tempo si faceva la prima anticipata dalle suore e poi si passava alla statale in seconda) che un bambino nato a gennaio, è avvantaggiato se non fa l’anticipo, perché fatica di meno e non si frustra. In alcuni paesi europei la prima elementare inizia a 7 anni. Chi si avvale degli anticipi sono gli extracomunitari, per far guadagnare un anno al figlio, che magari non parla l’italiano; gli insegnanti non hanno il potere di veto.
Bocciare alle elementari è di fatto impossibile, a causa del complicatissimo ier burocratico necessario.
L’uso ormai generalizzato (scuola, ammissione all’università, al posto di lavoro ecc) dei test a risposta chiusa (quelli con le crocette, somministrato in tempi strettissimi) non verifica le conoscenze né le capacità. Anche se è stato preparato correttamente, è assurdo di per sè, in quanto due risposte sono palesemente errate, una (quella nella testa dell’autore del test) è quella esatta, la quarta le si avvicina, e magari viene scelta dall’allievo intelligente e creativo (una volta si diceva capace di pensiero divergente), che non si limita a riprodurre l’appreso, ma se ne è appropriato in modo personale.
Tutti i docenti universitari dovrebbero essere obbligati a fare un poco di gavetta prima di approdare agli Atenei, perché non comprendono chi hanno di fronte. Cito Luigi Blasucci, il massimo leopardista vivente, che da insegnante di liceo arrivò alla Normale di Pisa, oppure il compianto Marziano Guglielminetti di Torino, e il nostro Elio Gioanola a Genova.
A me gli 8 anni trascorsi alla medie a inizio carriera sono serviti moltissimo, soprattutto quelli nei paesi caratterizzati da un diffuso analfabetismo (Ticineto, Castellazzo, Mandrogne: primi anni ’70, statistiche della Provincia). Il vezzo di nominare Ministro P.I. un docente universitario è stato deleterio, perché sono due mondi radicalmente diversi. Il docente universitario, con le dovute eccezioni, conosce solo la tipologia di scuola che lui ha frequentato, con la limitata percezione dell’età anagrafica. Molto si capisce dopo, ma intanto sono passati anni e la situazione non è più la stessa. Ogni classe inoltre è un unicum, formato da decine di fattori, la maggior parte dei quali sotterranei, che sfuggono alla comprensione superficiale.
In 40 anni non ho mai avuto due classi uguali.
La prova: lo stesso argomento fatto allo stesso modo che ha funzionato bene in una classe, in un’altra non funziona. Insegnare è un’attività che richiede attenzione continua; il rendimento della classe è condizionato dall’orario (l’ultima ora non si riesce a fare nulla e non è corretto interrogare; meglio la lettura collettiva di un libro), dalla materia precedente: se gli allievi hanno appena terminato un compito in classe di una materia forte, devi lasciare loro qualche minuto di svago.
Queste dinamiche all’Università non accadono, sia perché gli studenti non sono più adolescenti, sia perché l’organizzazione è diversa. Il Ministro P.I. dovrebbe essere un Preside, con almeno 30 anni di esperienza che ha conosciuto da insegnante o da dirigente la quattro scuole italiane, materna, elementare, media, superiori. Queste ultime poi sono sempre più differenziate tra loro, vittime anch’esse della mania delle specializzazioni precoci.
Per non parlare dei famigerati stage, o dell’assaggio scuola-lavoro. Possono andar bene se tenuti d’estate, durante l’anno sono dannosi, primo perché scompigliano la programmazione (un mese), di tutti i docenti della classe, secondo perché ogni cosa va fatta a suo tempo. Inserirsi a 17 anni in una scuola materna o elementare o in un ospizio o in una comunità di recupero, se non hai prima appreso italiano, matematica, latino, filosofia, sciemze ecc., diventa una permanenza turistica insensata, come quella di chi visita una mostra sul Rinascimento senza conoscere i nomi dei pittori. Lo stage diventa una specie di gioco, la scuola ludica che sostituisce quella della fatica: sono stata coi bambini, coi vecchietti, che teneri! Brava, e cosa hai capito? Nulla, e se credi di aver capito, ancora peggio.
A mio avviso però i nostri giovani non sanno scrivere, perchè non leggono, non pensano, non scrivono. Sono quasi tutti vittime di un DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo) generato dai social network, soprattutto dal telefono cellulare con le sue appendici.
Apparentemente il social net work serve a combattere la solitudine, in realtà la aggrava. Ricordo nei miei ultimi anni in classe, pochi minuti prima della fine dell’ora, le allieve cominciavano a sentire gli spilli sotto il sedere: stavano pensando al messaggino che attendevano, cui avrebbero risposto. Durante l’intervallo avevano tre mani, per la schiacciatina, l’estatè e il cellulare. Io con i miei figli non riesco a parlare senza essere continuamente interrotti dallo squillo del cellulare, che devono tenere acceso per ragioni di lavoro.
Io scrivo una mail come fosse una lettera. I loro messaggi, qualunque sia il mezzo usato, non superano un periodo, per cui della mia mail leggono le prime righe e si adirano pure.
Ma di diventare succube di un mezzo che sembra servire per comunicare, e in realtà stronca la comunicazione sul nascere, succede anche a me: se mando una mail o faccio una telefonata e non mi viene risposto, mi scatta una fibrillazione ansiogena irrazionale e immotivata. L’ansia di restare soli spinge a rispondere costantemente, per “fare sapere all’altro che ci sono”, ma l’atto stesso crea l’ansia: è un circolo vizioso. (vedi l’articolo collage di vari studi di Riccardo Staglianò, La Repubblica, 26/2/2009). I nostri giovani aspettano l’amico sotto casa e, invece di suonare il citofono, usano il telefonino. Ai bambini non si regalano più alle ricorrenze, feste, promozioni libri, l’orologio, l’oggettino d’oro; solo telefonini e aggeggi similari di cui ignoro il nome.
E’ stato calcolato che un giovane manda mediamente 1742 messaggini al mese. Non ha più tempo per stare solo. Per pensare: alla propria vita, ai propri progetti, a costruire il proprio sviluppo emotivo e cognitivo. Non si riesce più a leggere in un luogo pubblico: in treno, in sala d’aspetto del medico, sulla panchina del parco. Montale scrisse alcune sue poesie al caffè “Le giubbe rosse” di Firenze.
Il non saper scrivere è l’esito finale di un modo di vivere coatto; non usano più i quaderni, fanno le foto col telefonino, studiare un testo scolastico è una fatica improba per un giovane che non riesce a mantenere la concentrazione oltre 4 righe. I libri degli autori umanisti, non vengono letti: si legge internet, wikipedia o roba analoga. Su internet trovi tutto, il tema, pardon il saggio breve, già fatto. Gruppi di studenti o classi lo scopiazzano e poi lo mettono in rete. La poesia non viene più letta se la sua lunghezza supera quella degli haiku di Ungaretti (Caproni, figurarsi). Tanto c’è il commento riassunto parafrasi su google. Come si possa studiare la parafrasi di un canto di Dante o di una lirica di Leopardi, evitando di leggere il testo, non lo capirò mai; eppure ci riescono. Facendo così, che cosa perdono: tutto, la bellezza, lo sforzo cognitivo per capire come il significato di una parola possa cambiare nel corso dei secoli. Ma tanto si tratta di parole che non usano; il loro lessico si riduce a poche centinaia, parolacce e parole vuote (avverbi, congiunzioni, pronomi, esclamazioni, preposizioni) compresi.
Siamo entrati nell’epoca del pensiero corto, chi sta solo coi propri pensieri per mezzora è uno sfigato. Ma per conoscersi, per fare delle cose insieme, è necessario il faccia a faccia prolungato; se non cè, i rapporti affettivi si deprivano e scompaiono in fretta. I nostri giovani hanno il terrore del vuoto, dei tempi morti, della solitudine appunto, ma vivono in un modo che più vuoto e più solo non si potrebbe. I contatti virtuali non servono alla costruzione di sé: servono a coprire un vuoto con il vuoto. Non essere capaci di scrivere non è il primo problema, sono i decerebrati che avanzano il problema: bullismo, ocaggine, razzismo, pregiudizi, incapacità di compiere un’analisi o un collegameto logico elementare (principio di identità, di non contraddiziione , del terzo escluso), altro che sistema binario di Leibniz e dialettica di Hegel; Neppure gli stoici o gli epicurei sono in grado di capire e di collocare nel posto giusto, sostituiti da una bella mappa copiata in rete.