“Il cammino e l’opera di 108”: a Sin.tonia l’opera di Guido Bisagni, artista flaneur alessandrino

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Venerdì 3 febbraio alle ore 18.30, presso la sede dell’Associazione Culturale Sin.tonia in piazza G. D’Annunzio, 1 ad Alessandria, l’architetto Mario Mantelli presenterà l’opera di Guido Bisagni, artista flaneur, alessandrino, che attraverso alcuni archetipi fondamentali dà forza e mistero alla sua arte (post-graffiti) connotando lo spazio aperto di una trascendenza che trae origine dai motivi ancestrali dell’esistenza.

Alla fine della serata l’Associazione Sin.tonia offrirà un aperitivo ai suoi ospiti.

Chi è Guido Bisagni, ‘108’
‘108’ nasce ad Alessandria nel 1978. Come lui stesso racconta, da ragazzino avrebbe voluto diventare un fumettista, affascinato dai volumi della madre (Moebius, Druillet, Crepax, Pratt…), ma sul suo percorso non frequenta scuole artistiche: Istituto per geometri prima e Politecnico di Milano poi. “Ho iniziato con i graffiti durante i primi anni ’90, da qui deriva l’uso di un soprannome e il bisogno di interagire con gli spazi pubblici. Alla fine del decennio – spiega – mentre vivevo a Milano e influenzato dalle avanguardie storiche ho deciso di intraprendere una mia personale esperienza artistica che però per anni non ho mai visto come una possibile professione, anzi ai tempi mettevo la tecnica completamente in secondo piano, utilizzando i materiali più grezzi come carta da pacchi, pellicole in pvc o polistirolo espanso e fotocopie. Le idee radicali di personaggi quali W.S. Burroughs o Antonin Artaud in quel periodo erano importanti tanto quanto i lavori dei miei pittori preferiti”.

Il suo lavoro è diviso in due parti, parallele e indivisibili: la ricerca puramente artistica, pittorica, e l’intervento nello spazio pubblico, in cui si è evoluto il suo percorso artistico.

“Il mio lavoro – racconta – ha innumerevoli influenze che partono dalle pitture e dalle incisioni neolitiche e arrivano al disegno industriale. Alla base però metto l’astrattismo storico con le teorie di Kandinsky e Malevich da una parte e Jean Arp dall’altro. Ho letto la prima volta “Lo spirituale nell’arte” durante il primo anno di Politecnico a Milano, era il 1998/99 studiando il Bouhaus, e rimasi irrimediabilmente segnato. Quel giorno decisi di dedicarmi all’astrattismo che fino ad allora non avevo mai capito veramente. Sono completamente legato alle avanguardie di quegli anni, ad una visione spirituale dell’arte: molte volte mi è capitato di ‘rovinare’ dei lavori che esteticamente funzionavano perfettamente, ma che per qualche motivo irrazionale non riuscivo a considerare onesti. Per esempio altri pittori che mi hanno influenzato sono Burri e il Fontana del primo periodo spazialista, ma ad un livello più estetico e superficiale”.

Alla base del suo lavoro, spiega, c’è “la forma e quindi la ricerca di una ‘forma perfetta’ che può essere perfetta per quel momento o per quello specifico luogo, ma non esserlo pochi giorni dopo o in un altro luogo. Per me decidere cosa fare è dettato da un 50% di ricerca razionale e da un 50% di puro caso. Il cerchio o il triangolo equilatero per esempio sono forme perfette che ho usato molte volte. Sono forme però ‘universali’ il massimo dell’astrazione. Allo stesso tempo ho bisogno di trovare il casuale, il ‘non voluto’, che non è facile: provo ad usare la mano sinistra ad esempio o a disegnare centinaia di forme fino a quando inizio a farlo in modo completamente automatico. Mi piace molto l’irregolarità, la texture data dalle campiture di un rullo, un pennello, uno spray. Cerco sempre di bilanciare le mie decisioni con il caso, oppure di trovare le nuove forme in modo casuale. Mi avvicino all’ignoto e quindi a una qualche forma di spirito, cerco di fare lo stesso non solo con la pittura ma anche con composizioni sonore ed esperimenti video che mi piacerebbe approfondire. Con gli anni sono diventato anche un appassionato di antropologia culturale e credo che il mio processo produttivo vada verso alcuni tipi di pratiche sciamaniche. Credo che l’arte debba sempre avere uno spirito di fondo per avere un senso. Di sicuro tutta la mia ricerca artistica è indivisibile dai luoghi in cui si è sviluppata, anche quando si trova su tela. L’utilizzo del nero per esempio è sicuramente dovuto ad una facilità e velocità di utilizzo, da una forma di rispetto verso questi luoghi (una forma fluo sarebbe completamente fuori posto) e da un impatto visivo della forma semplice che con un altro colore non sarebbe uguale.

E poi, come lui stesso sottolinea, c’è l’intervento nello spazio pubblico. “Questa parte – ricorda – molte volte è sottovalutata se non del tutto ignorata in un ambito come quello dell’arte urbana. Sono cresciuto ad Alessandria, ex città industriale esattamente al centro tra Milano, Torino e Genova, zona che fu la più industrializzata d’Italia e una delle più industrializzate d’Europa. Quando sono nato quest’area era già in completa decadenza e i grandi stabilimenti, come la Borsalino, che era stata la più grande fabbrica di cappelli del mondo, erano in crisi completa ed avevano già iniziato a chiudere. Da ragazzino con gli amici prendevamo la bici per fare vere e proprie esplorazioni negli ex-stabilimenti di cui la città era piena. Poi nei primi anni ’90 ho iniziato con i graffiti e ci capitava spesso di andare lungo la linea a dipingere su muri scrostati, vecchi fabbricati, completamente decadenti. In questo modo ho iniziato a vivere aree del contesto urbano e suburbano che nessuno ‘vedeva’, tranne qualche vero outsider. Mi sono appassionato alla storia di tutta l’area: tutti gli stabilimenti che esistevano nelle vallate appenniniche o in Monferrato, tra ‘800 e ‘900 con i loro sistemi di ferrovie industriali, ormai scomparsi, architetture a metà tra il medioevo e la rivoluzione industriale. E soprattutto questo contrasto tra natura e industria che in questi luoghi diventano quasi un unica cosa. Nel ’97 mi sono spostato a Milano per studiare Design alla facoltà di Architettura del Politecnico ed è stato un punto di passaggio sia dal punto di vista intellettuale sia per la possibilità di vivere zone industriali decadute ancora più grandi e complesse. In questo modo nel ’99 ho iniziato con il “progetto 108” quando volevo cercare di fare qualcosa di più personale artisticamente e allo stesso tempo ho iniziato a rendermi conto di tutto questo contesto di cui prima era totalmente incosciente anche se ne ero immerso”.