di Dario B. Caruso
Pochi giorni fa ho ascoltato un’intervista radiofonica, su un canale Rai.
Si parlava della prossima Pasqua e delle uova di cioccolato che l’associazione AIL (Associazione Italiana Leucemia) ha venduto come ogni anno in migliaia di piazze per sostenere la propria ricerca.
Ai banchetti si trovano i volontari di AIL; tra loro, coloro che sono guariti dalla leucemia ma anche – in numero di gran lunga superiore – chi ha perduto un affetto.
Nell’intervista il presidente nazionale Giuseppe Toro lamentava la carenza di fondi per la ricerca, spiegava di quanto ci vorrebbe in termini di investimenti da parte dello Stato per alleviare le sofferenze ai malati e in tempi storici debellare il tumore del sangue.
E parlava di cifre decisamente più esigue rispetto ai miliardi destinati – per esempio – agli armamenti per le guerre in corso.
Mi è sembrato un ragionamento logico, lapalissiano, quasi elementare, come quello che si fa ad una classe di bambini dell’infanzia il primo giorno che li incontri.
Tutti siamo toccati, più o meno da vicino, dal cancro e dagli strascichi che queste malattie infliggono a chi ne è colpito e alle rispettive famiglie.
Per questa ragione forse cominciano a crescere le violenze in ambito sanitario.
Non perché la gente ce l’ha con i medici e i poveri infermieri ma forse perché dentro ciascuno di noi comincia a montare il sentimento di ingiustizia sociale che stiamo vivendo.
Siamo noi cittadini a dover fare beneficenza oppure è lo Stato che dovrebbe investire (proprio così, investire) le nostre tasse in salute?
Io la risposta ce l’ho.
Attendo questa Pasqua; spero che risorgano le coscienze di coloro che possono agire.
Per il resto, andrò in chiesa e ascolterò la Passione di Cristo con l’umiltà che mi hanno insegnato.