di Dario B. Caruso
Ci sono canzoni che suscitano emozioni particolari.
Riportano a momenti lontani, impossibili da replicare e quindi inevitabilmente commoventi.
Vuoi le parole, vuoi la linea melodica, vuoi quell’elemento ineffabile: tutto contribuisce a smuovere il turbamento.
Piangere per una canzone appartiene alle persone che hanno una certa età, uomini e donne che avendo vissuto a lungo hanno molto da ricordare e di conseguenza da rimpiangere.
Si potrebbe pensare così.
E invece da qualche tempo accade una cosa strana.
Piangono i giovanissimi.
Stracciandosi le vesti non alle vibrazioni di pop star e pseudo divi del trap bensì al suono di lente ballate ricche di contenuti antichi.
Ohibò, verrebbe da dire.
I ragazzi piangono ascoltando un brano di Francesco De Gregori che ricorda loro un nonno o uno zio che non c’è più.
Piangono ascoltando una canzoncina natalizia che – per quanto trita e ritrita – rammenta loro che quest’anno per la prima o ennesima volta il 25 dicembre papà sarà da una parte, mamma dall’altra e io non so ancora dove dovrò andare.
Piangono ascoltando un lento dei Led Zeppelin perché gli amici di quest’estate li rivedrò fra troppo tempo.
E se ci trovassimo di fronte ad un’inversione di tendenza?
Abbiamo toccato il fondo in molteplici aspetti della vita e la musica, la colonna sonora della quotidianità che non si spegne mai anche volendo, ci sollecita a volere di più, ci solletica a non mollare la presa.
Anche a noi ragazzini, che di tragedie siamo circondati e meritiamo un mondo sano.
Per vivere meglio.
Per vivere.