di Dario B. Caruso
Apro l’armadio.
Nell’angolo, là in fondo, ci sono alcuni indumenti che avevo dimenticato.
Una vecchia tuta della Adidas, acquistata trent’anni fa, forse di più.
Due paia di calzettoni senza piede, sembrano in buono stato.
Un paio di calzoni corti Australian, da tennis ma poco importa.
E poi un piccolo gioiello della memoria: una maglia a maniche lunghe, misto cotone e sintetico, datata 1980; era la maglia della mitica squadra del Liceo, quella dei tornei di pallamano che decretarono la mia scuola una delle migliori a livello regionale.
Provo ad indossare ogni pezzo, in un patchwork di colori e di storia.
Mi guardo allo specchio.
A parte il fisico imbolsito, lo sguardo ebete, i capelli assenti e gli occhiali multifocali, il resto è ora come allora.
Calza a pennello!
Con un filo di entusiasmo malcelato, do un bacio a mia moglie ed esco.
Lei sta certamente pensando che potrebbe essere l’ultima volta che mi vede uscire da quella porta.
Arrivo al campo, i fari sono già accesi e così entro sul rettangolo verde in erba sintetica, sgambettando come uno che non ha dimenticato i fondamentali: un piede per volta, prima il destro e poi il sinistro.
Un gruppo di amici vecchi e nuovi mi accolgono con il sorriso. Conosco qualcuno per ragioni di lavoro, altri per amicizie comuni, altri ancora perché Savona è davvero piccola.
Squadre in campo, si comincia la partita.
Mi appresto a giocare la prima partita del millennio.
È davvero strano, giocare ad uno sport che non seguo da molto tempo neppure in televisione.
Ricordo addirittura altre regole: si gioca con i piedi, non devo colpire di mano la palla, devo tirare in rete e soprattutto non posso assolutamente prendere a calci i miei avversari.
Nel corso del primo tempo mi sovvengono altre nozioni che avevo accantonato: evito di fare tutto da solo e passo ai compagni liberi.
Fine primo tempo.
Un piccolo passivo di quattro reti e si va al cambio di campo.
Fino ad ora ho giocato davvero al risparmio, non avendo contezza delle mie reali potenzialità mi sono astenuto da scatti e dribbling.
Adesso però nel secondo tempo mi lancerò in qualche galoppata sulla fascia.
Mio padre – lui sì che ha giocato a livelli importanti – mi ha sempre detto come posizionarmi sui calci d’angolo. Allora alla prima occasione mi sistemo sul vertice dell’area opposto alla bandierina del corner e voilà: una rete d’altri tempi.
Folla in delirio e distanze accorciate.
L’affinità con i compagni di squadra comincia a prendere forma, alcune triangolazioni esteticamente perfette sanciscono la forza del gruppo.
Si perde di misura ma con onore.
Arrivo a casa.
Mi accorgo che mia moglie ringrazia la Madonna (o comunque un suo parente stretto) e mi butto sotto la doccia.
Non ho male ad alcun muscolo.
Fino al mattino dopo, quando mi alzo per andare a scuola e l’unico parte che non mi duole è il naso.
Felice però di aver giocato per un’ora, giocato come non facevo dal millennio scorso.