di Dario B. Caruso
Quando muore un genio, anche se controverso e scomodo, il vuoto incolmabile non appare immediatamente.
Prima c’è l’overdose di notizie e informazioni, poi la metabolizzazione della scomparsa, quindi il vuoto.
Con Diego Armando Maradona è stato così.
Ancora giovane lui, ancora fresche le sue imprese – in campo nel bene, fuori campo nel male – ancora freschi i suoi palleggi, i suoi tocchi di palla soffici e ad effetto, le sue triangolazioni rapide e i suoi gol.
Per chi ha almeno quarant’anni si tratta di una storia vissuta direttamente, incastonata in un mondo del calcio che stava attraversando una transizione tecnica e gestionale.
La scomparsa di Pelé è un’altra cosa.
Vederlo in azione è stato un privilegio degli almeno settantenni di oggi.
Mentre io nascevo, Edson Arantes do Nascimento rifilava otto gol al Botafogo, con la maglia del Santos.
Inutile dire che quel calcio non esiste più da troppo tempo.
Lo si capisce guardando le immagini di quegli anni, atleti sobri nel fisico e nella mente, eleganti ed ineguagliabili nelle movenze.
Lo si evince dalle testimonianze dei nostri padri e nonni, oggi bulimici di uno sport insapore e incolore come astronauti che assumono pasticche nutrizionali per necessità e non per piacere.
Dopo Mozart muore Beethoven.
Io non l’ho vissuto ma posso rispolverare le sue composizioni riascoltandolo e ripassando le partiture.
Perché il bello non ha tempo, magari cambia il gusto del pubblico ma quello che è stato resta in eterno.