di Ettore Grassano
“Che oggi la politica abbia totalmente abdicato al proprio ruolo di guida della società mi pare evidente, in tutto l’Occidente e non solo in Italia. Il punto è semmai capire se qualcuno ha intenzione di provare a restituire la sovranità ai popoli, e come farlo. In ogni caso, studiare il passato serve a comprendere che il capitalismo non è l’unica soluzione possibile, ma un modello socio-economico storicamente determinato, che come tale ha avuto un inizio e avrà una fine”.
Con il professor Barberis funziona così: ci si vede al tavolino di un bar per discutere di un bel libro che ha curato di recente (E’ finito il Sessantotto, Edizioni Falsopiano, in uscita a metà settembre),e ci si ritrova a tentare raffronti (sconsolanti, in verità) tra l’Italia degli anni Sessanta e Settanta e la realtà di oggi, in cui capacità di riflessione, spirito critico e gusto del contraddittorio sembrano assolutamente cancellati da un ‘non pensiero’ unico, di cui in verità spesso si fanno anche portatori alcuni arzilli ex sessantottini ‘convertiti a tutto’, pur di continuare a stare sulla scena.
E’ insomma, la pubblicazione del libro del professor Giorgio Barberis sul Sessantotto (insieme all’altro, non meno interessante, che raccoglie gli scritti del prete guerrigliero colombiano Padre Camilo Torres, Liberazione o morte, Oaks Editrice),l’occasione per riaprire con il politologo alessandrino, docente all’Università del Piemonte Orientale e Vicedirettore del Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze politiche, economiche e sociali (DIGSPES), uno spazio di riflessione ‘a tutto campo’, che certamente cercheremo di sviluppare, nei prossimi mesi, anche in altre direzioni, più locali.
Ma oggi proviamo, appunto, ad indagare su Sessantotto e dintorni: anche con qualche ‘aneddoto’ alessandrino.
Professor Barberis, partiamo dal libro: non solo il Sessantotto è finito. E’ anche finito male?
(sorride, ndr) Ovviamente non possiamo liquidare un fenomeno storico e socio politico così complesso con una battuta: diciamo che il Sessantotto, per come lo si intende in questo libro, ma anche in molte altre analisi che lo hanno preceduto, non è soltanto un anno, una data circoscritta, ma è un vento di idee, di ideali, di contestazione dell’esistente, e pure di proposte e di conquiste, che comincia qualche anno prima, a metà dei Sessanta, e che si estende molto oltre la data del 1968: in qualche paese, come l’Italia, continua almeno per tutti gli anni Settanta.
L’impressione, per chi li ha vissuti ma anche per chi li ha studiati seriamente, è che gli anni Sessanta e Settanta siano stati un periodo di straordinaria vitalità per il nostro Paese. Forse perché l’Italia era all’epoca un paese giovane?
Sicuramente quello è stato un elemento decisivo: tanti giovani, in un momento di grande trasformazione ideale e materiale. Pensiamo alla massiccia migrazione ‘industriale’ dal sud al nord del paese, nella fase delle grandi fabbriche, e alla centralità sociale della figura dell’operaio, di cui si occupa uno dei saggi del libro, a cura del professor Revelli. Dall’incontro/confronto tra operai e studenti (un altro asset di analisi del libro sono proprio la scuola e l’università ‘di massa’ di quegli anni) nasce un mix deflagrante di idee, lotte, sogni, ribellione, ideali e, naturalmente, anche sconfitte, che complessivamente indichiamo come Sessantotto.
“Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto”, si leggeva sui muri della Facoltà di Sociologia, a Trento. Frase attribuita a Mauro Rostagno, uno dei leader carismatici del movimento giovanile di quegli anni. A posteriori, è anche la sintesi di un fallimento?
Certamente sì, se guardiamo a cosa è successo nei decenni successivi, non solo in Italia ma in tutto l’Occidente. Pensiamo all’affermazione ‘la sovranità appartiene al popolo’, contenuta nell’articolo 1 della nostra Costituzione, che in fondo stava alla base di tutte le istanze di ribellione di quegli anni, da casa nostra al Sudamerica: è chiaro che qualcosa non ha funzionato. Da marxista, direi che il Capitale ha saputo reagire in maniera feroce alla mobilitazione operaia e al pensiero critico, riducendo via via (quasi fino ad annullarla) ogni forma di resistenza, di antagonismo. Eppure il capitalismo è solo un sistema socio-economico storicamente determinato: non è la “fine della Storia”, come qualcuno – sulla scia di Fukuyama – aveva ingenuamente ritenuto dopo la caduta del Muro di Berlino..
Torniamo al Sessantotto: primo fenomeno “glocal”?
Per certi versi sì: un movimento di idee e di valori che si estende dagli Stati Uniti all’Europa, al Sudamerica. La consapevolezza che il vecchio e consolidato sistema di regole, e di meccanismi non solo socio economici, ma culturali e politici poteva e doveva essere messo in discussione, e cambiato radicalmente. Il libro, costituito da una serie di brevi saggi, focalizza l’attenzione da un lato su alcuni ‘luoghi’ del Sessantotto (dal Messico all’Italia, con focus su Milano, Trento, Torino, Genova, e anche Alessandria, ndr), e dall’altro su alcuni grandi temi (la centralità operaia, la scuola, le donne, il cattolicesimo critico, il cinema) attraverso i quali si cerca di ricostruire ‘lo spirito’ non di un anno, ma di un’epoca che, almeno in Italia, dura – come detto – fino alla fine degli anni Settanta, inizio Ottanta. Quando da un lato la repressione per via giudiziaria della sinistra antagonista, dall’altro la famosa ‘marcia dei 40 mila’ a Torino, sanciscono il vero inizio degli anni del “riflusso”, e palesano la vittoria del capitalismo finanziario, sempre più globalizzato.
Eppure il Sessantotto genera frutti, eccome. Magari gli italiani di oggi lo ignorano, ma lo Statuto dei lavoratori (1970), e la sanità pubblica gratuita (1978) senza il Sessantotto sarebbero stati impensabili…
Concordo, così come il Sessantotto condiziona positivamente l’evoluzione e la crescita del sistema scolastico e universitario, e il diffondersi della cultura di massa. Dopo il ’68 niente è più come prima. Ma quell’enorme spinta al cambiamento, che sembrava capace di trasformare in maniera radicale l’intero Occidente, ad un certo punto viene canalizzata, integrata, e per molti versi duramente sconfitta.
C’è un capitolo nel libro dedicato al Sessantotto alessandrino, tra circoli culturali, teatro e cinema. Una vitalità d’altri tempi, diciamocelo……
Incredibile constatare quanti giovani, con tanti nomi successivamente protagonisti della vita pubblica e delle professioni, siano stati in quegli anni coinvolti in progetti culturali che nascevano spontaneamente, dal basso, ed erano portati avanti con grande determinazione, incidendo in maniera significativa sul tessuto cittadino. Spero che costoro possano leggere le pagine curate da Alberto Ballerino con piacere, e forse con un po’ di nostalgia. Anche oggi però i giovani continuano ad essere una speranza, di questo sono estremamente convinto, avendo l’opportunità di frequentarli professionalmente all’Università.
Nei primi anni Ottanta il Capitalismo in Occidente sembra riprendere il controllo completo della situazione, e alla fine di quel decennio crolla il Muro. Si parlò, come ricordavamo, di fine della Storia…..
(sorride, ndr) La Storia non finisce mai, anche se ci sono epoche in cui chi vince, o stravince, ama far credere che nulla potrà mai più cambiare. Il Capitalismo, dagli anni Ottanta ad oggi, ha vissuto diverse fasi evolutive, e crisi sistemiche. Dall’epoca del neo liberismo selvaggio della Thatcher e di Reagan alla trasformazione della sinistra mondiale negli anni Novanta, che con Clinton, Blair e i loro tanti epigoni cambia progressivamente pelle, sino a diventare un pilastro portante ed entusiasta del capitalismo stesso. Che nel frattempo diventa sempre meno produzione e sempre più finanza, fino al crollo del 2007/2008, e agli eventi successivi che ci hanno condotti sin qui, in questa che il sociologo Ulrich Beck definiva la società del rischio, e dell’incertezza. Un anno davvero significativo credo sia stato il 2001: il sistema mediatico occidentale lo lega indissolubilmente all’episodio delle Torri Gemelle, ma fu anche l’anno del G8 di Genova: ossia una nuova generazione, assolutamente internazionalista, si ribella e dice no, il capitalismo non è l’unica strada, e neanche la strada migliore. Si cercava e si voleva “un altro mondo possibile”. Il Potere ha risposto con la repressione, e il sangue. Ma il seme è stato gettato.
Però sono passati altri vent’anni da allora, professor Barberis: e oggi più che mai l’Occidente appare da un lato decadente, dall’altro assolutamente ‘sotto scacco’: l’incubo pandemia pare avere azzerato ogni dibattito, ogni capacità e volontà critica. I vertici dei governi li sceglie l’economia internazionale, la politica accetta e ratifica, e il popolo applaude. La democrazia è ormai superata?
(sorride e riflette, ndr) Abbiamo due strade davanti a noi, entrambe da valutare con attenzione. La prima è il ritorno alla sovranità statale, ad un mondo di nazioni. Trovo un po’ riduttivo il modo con cui oggi soprattutto la sinistra tende a liquidare il fenomeno dei populismi: può non piacere la strumentalizzazione di certe istanze, ma bisogna chiedersi perché molte fasce popolari guardano a destra, cercando lì identità e protezione. Probabilmente basta osservare con un po’ di spirito critico le sinistre occidentali di oggi per trovare una risposta. Io però, da marxista convinto, propendo per la seconda strada: la politica deve essere capace di un approccio internazionalista. ‘Nostra patria è il mondo intero’, insomma: certo, un mondo completamente diverso da quello di oggi, schiacciato solo dalla dimensione del Capitale, sempre più portatore di ingiustizie, disuguaglianze, nuova barbarie (e crisi ecologiche di vasta portata, non dimentichiamolo). Però non è vero che manchino proposte alternative, appunto di tipo internazionalista: penso in particolare ai movimenti ambientalisti di nuova generazione, assolutamente post ideologici, e capaci di aggregarsi attorno ai valori dell’ecologia, del clima, del rispetto dell’ambiente. So bene che è un comparto anch’esso fortemente strumentalizzato da quelle stesse forze che hanno generato l’orrore ecologico in cui viviamo. Ma ritengo davvero importante che esista un movimento, internazionalista e giovanissimo, che comprende come il modello economico capitalista occidentale (e non solo: pensiamo alla Cina, con il suo espansionismo assai poco rispettoso dei diritti, dell’ambiente, delle risorse del pianeta) sia non solo iniquo, ma anche ormai insostenibile. E poi invito tutti a rileggere con attenzione le ultime Encicliche di Papa Francesco: sono davvero documenti preziosi, ricchi di stimoli e suggestioni anche per chi non ha il dono della fede.
Giulio Andreotti dei Verdi dei tempi suoi diceva ‘sono come i pomodori: quando maturano diventano rossi”..
(ride divertito, ndr) Magari, speriamo che sia davvero così! Al netto della siderale distanza politica, dobbiamo ammettere che il Divo Giulio ci ha azzeccato più di una volta…