di Pier Luigi Cavalchini
“Cosa sono due metri? Un tragitto insignificante per qualsiasi essere umano. Però per me questi due metri che servono per poter arrivare a te e per poterti almeno toccare sono un viaggio impossibile, una chimera, un sogno, per questo voglio morire“. Questo deve aver pensato Raffaele Celia all’inizio del secondo tempo di Como – Alessandria quando si è trovato nelle condizioni ideali per calciare a rete, pareggiare una partita che l’Alessandria avrebbe dovuto assolutamente vincere e, chissà, dare il via ad un secondo tempo in rimonta con sorpasso della capolista e strada in discesa per la Serie B.
Può sembrare un accostamento bizzarro, al limite dell’irridente (*) ma ciò che deve aver provato il terzino catanzarese (perché Raffaele Celia è nato a Catanzaro), considerando quel breve tratto non superabile tra lui e il pallone, deve essere stato qualcosa di molto simile.
Un macigno insopportabile, un senso di frustrazione unico, una maledizione che – come giocatore – non sa spiegarsi. “Bastava essere pochi centimetri più avanti” e la distanza di due metri fra lui e la linea di porta si sarebbe volatilizzata in una cascata di strisce iridescenti, da far invidia alla squadra vincente della Champions League. Una mazzata tremenda, un fulmine, un susseguirsi di immagini che devono aver riempito le (deboli) scorribande dei giocatori “grigi” nel corso di quel sciagurato secondo tempo.
Le istantanee delle mille persone che hanno osannato con fiducia i giocatori che “sicuramente” avrebbero sbancato il “Sinigaglia”, il passaggio in mezzo a due ali di folla (in Viale Milite Ignoto) che neanche il Real Madrid si può permettere “sulla fiducia”. Le immagini di volti sorridenti, in maggioranza di mezza età, se non di età avanzata, che guardavano a questi giovani con la speranza di un riscatto, di una liberazione, di una riqualificazione per tutta una città.
Una maledizione che grava da 47 anni e che condanna una città, un intero territorio alle categorie minori del calcio, fra serie D e serie C. Pubblico di poco valore a cui sono riservati i loggioni nei Teatri di vaglia, senza arte né parte, capaci – al massimo – a credere ad un sogno effimero…per poi svegliarsi con un pugno di mosche.
E il 47 (“o mmuorte” della smorfia napoletana) è immediatamente seguito dal n. 48, il “morto che parla”, non un buon auspicio per chi crede che il “paradiso” prima o poi debba arrivare.
La serie B (e magari, chissà, anche la serie A) sarebbero per Alessandria una delle poche certezze a cui aggrapparsi, visto che “il male dentro” è caratteristica comune a molte particolarità della città e dei dintorni.
Alessandria “città delle biciclette” con tanto di museo dedicato ma con uno dei tassi d’uso delle piste ciclabili più bassi d’Italia.
Alessandria città di Umberto Eco, mitico semiologo che è riuscito a diventare un’icona senza tempo solo allontanandosi dal luogo di nascita, per altro segnato dalla carenza, anzi – di fatto – dall’ assenza di un sistema museale minimamente accettabile. Pinacoteca chiusa, Museo cittadino chiuso, aperture spot di gallerie o mostre di appoggio e poco più. Poca valorizzazione, soprattutto in chiave di fruibilità continuativa e moderna, di un patrimonio come il complesso di Marengo o, ancor peggio, del “fantasma Cittadella”, entità sconosciuta ai più, di proprietà demaniale, sede di Soprintendenza, ma sostanzialmente lasciata a se stessa.
Un centro poco gradevole, con buchi ovunque, con un sistema parcheggi antidiluviano, con autobus giganti inadatti ad una “smart city” come vorrebbe essere la “città de la palea “, perennemente rinchiusa in quattro o cinque leggende che ne delineano fatti e misfatti lontanissimi nel tempo.
Una località poco amena con un evidente “male dentro” che si manifesta nella scarsità delle proposte culturali, nella drammatica chiusura del suo Teatro, nella malinconia di certe sue vie pari solo alla cupezza o alla distopia dei suoi abitanti.
Capita spesso, tornando al “dio pallone”, che noi alessandrini, “grigi nel cuore”, veniamo sbeffeggiati con il più classico degli sfotto’: “Grigi siete e grigi resterete”, dove – questa volta – l’accezione della mezzatinta prende una piega negativa quasi da roditore. Ma ce lo meritiamo.
Da vent’anni e più la dirigenza è esterna al territorio, i giocatori sono un corpo a parte rispetto agli sportivi del Moccagatta, dei cittadini tutti, dell’intera città. Vengono da Roma, dalla Lombardia, dalla Calabria, dalla Sicilia, dal Veneto, a volte dall’Africa, dal Brasile, dalla Croazia…non hanno legami con la città se non per brevi periodi, conoscono l’entusiasmo degli sportivi solo per ricordi o per filmati registrati, non restano molto in città, vengono, giochicchiano e se ne vanno…… Difficile biasimarli.
Una squadra da ricostruire comunque vadano a finire le lotterie dei prossimi “play-off”, con una età media altissima, con un buon allenatore che, si spera rimanga ma che, tutti temono, taglierà la corda appena possibile.
A meno che….a meno che, come scriveva Eduardo Galeano, “Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia” (**).
Una difesa “a tre” poco attenta improvvisamente diventa una saracinesca impenetrabile, un Pisseri qualunque si trasforma in un insuperabile Yashin, Casarini, Gazzi, Celia, Parodi, Eusepi, Arrighini e co. si immedisimano in Falcao, Zico, Junior, Ronaldinho, Pele’ e Garrincha e…fanno la magia. Proprio come “il nano e il gigante” del grande Galeano. “Però sempre mi sveglio,// e sempre voglio essere morto,// per restare con la mia bocca // preso nella rete dei tuoi capelli” come scrisse il citato Ramon Sampedro nel suo “Mare dentro” .
Nel caso di Ramon la disperazione veniva stemperata dall’abbraccio del mare, nel nostro caso il “male” continua a penetrare tutti gli interstizi, ad essere opprimente e minaccioso come non mai. Sa di possedere la migliore delle prede possibili: quella che non reagisce e che scivola sempre più in basso senza neanche accorgersene. Con Celia, siamo sicuri della sua contrizione, si sono spenti centinaia di “cuori grigi” che sarà difficile far riaccendere.
Vedremo che succederà dal 24 di maggio fino alla prima decade di giugno per capire se si tratta davvero di un “morto che parla” o di un bel 45… il “vino buono”.
(*) “Mare dentro” è un film del 2004 del regista spagnolo Alejandro Amenábar (Apri gli occhi, 1997, The Others, 2001) che racconta la storia vera di Ramón Sampedro, scrittore e attivista per il riconoscimento legale del diritto all’eutanasia in Spagna, dopo che – per un tuffo incauto – era diventato tetraplegico. Una pellicola intensa e toccante che si è aggiudicata l’Oscar al Miglior film straniero nel 2005, 14 premi Goya nello stesso anno e il Leone d’Argento – Gran premio della giuria al regista nel 2004. La frase citata è del protagonista del film drammatico Ramon Sampedro, impersonato magistralmente da Benicio DelToro.
(**) Famoso aforisma tratto da: Splendori e miserie del calcio italiano.