«Non abbiamo mai chiuso. La nostra porta è sempre aperta». Una porta molto particolare, quella del Pronto soccorso dell’ospedale di Alessandria. Che si apre su un Dipartimento di emergenza di secondo livello che svolge la funzione di centro di riferimento “Hub” per il quadrante delle province di Alessandria e Asti per le patologie che richiedono alta specializzazione, ma che è anche il Pronto soccorso al servizio del capoluogo. Due anime diverse che convivono all’interno della struttura guidata da Riccardo Boverio, direttore della Medicina e Chirurgia d’accettazione e d’urgenza dell’Azienda Ospedaliera Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo.
Questa è la prima frontiera della sanità che nel 2020 è stata travolta dall’emergenza pandemica. E che non sia stato un anno normale lo dicono i numeri: durante la prima ondata di coronavirus («è stata violenta, improvvisa, ma più limitata nel tempo») sono transitati dal Pronto Soccorso 640 pazienti affetti da covid quasi tutti arrivati in gravi condizioni, diventati oltre 1800 (finora) durante la seconda («più graduale e protratta nel tempo»), però con un quadro clinico mediamente meno grave rispetto ai precedenti. I normali accessi – la media è di oltre quarantamila all’anno, di cui ventottomila circa codici verdi – hanno registrato un calo del trenta/quaranta per cento.
«Durante il primo lockdown – spiega Riccardo Boverio – vi è stato un brusco calo di accessi di tutto ciò che non era covid: dai traumi da incidente agli infartuati, mentre subito dopo la riapertura c’è stato un incremento vertiginoso di accessi per fratture del femore in persone anziane. In molti hanno ripreso le normali abitudini però la prolungata assenza di una minima attività motoria per mesi ha avuto effetti negativi su una certa fascia di popolazione fragile».
È durante la seconda ondata pandemica che è invece cambiato tutto. I numeri sono raddoppiati, i pazienti covid arrivano in prevalenza dalla città, mentre la prima volta provenivano dalla provincia, in particolare dall’area che confina con la Lombardia, ma soprattutto non si è interrotto il normale accesso al Pronto soccorso di pazienti non covid. La gestione è diventata così più complessa perché è stato necessario mantenere attiva e potenziata la capacità di ricezione sia di pazienti covid che no covid al fine di garantire sempre l’assistenza all’utente. «L’organizzazione del DEA prevede la suddivisione già prima del triage di pazienti covid o sospetti e di pazienti no covid. A tutti viene fatto un tampone nasofaringeo, per confermare i casi sospetti e verificare l’eventuale presenza di asintomatici che nella seconda ondata sono stati molto più numerosi. Da qui l’estrema attenzione e accuratezza nelle procedure e nella logistica che tutto il personale del DEA deve mettere in atto per garantire l’assistenza ai pazienti, gestione che si complica nel Pronto soccorso che ha spazi che non possono essere estesi a piacimento e con una dotazione di personale che anch’essa non si può moltiplicare all’infinito» osserva Boverio.
L’estate è stata diversa? «No, non è stata una estate normale. Certo, il numero di malati covid è stato particolarmente basso, ma abbiamo sempre lavorato con le stesse procedure e dotazioni di protezione. Per noi non c’è mai stato un momento di tregua, non abbiamo mai abbassato la guardia».
Il dover quotidianamente affrontare la gestione delle urgenze sanitarie con l’imprevedibilità della pandemia covid che sovverte ogni programmazione è quello che pesa di più sul piano psicologico e diventa un fattore particolarmente logorante. «Il personale del Pronto Soccorso che ogni giorno si dedica senza riserve alla cura dei pazienti si è trovato in prima linea a gestire una patologia di cui non si sapeva nulla, né come fare diagnosi né quali terapie utilizzare. Un continuo accesso di pazienti, senza previsioni certe sulla quantità, ai quali hanno prestato tutte le cure possibili con la complicazione di ogni singola azione per le procedure di prevenzione e il dover lavorare con i dispositivi di protezione che determinano un pesante impatto sul piano dei rapporti umani e della comunicazione. Il covid – è la riflessione di Riccardo Boverio – è la malattia della solitudine. C’è quella del paziente che non può essere accompagnato dal proprio parente e con i quali può comunicare solo attraverso telefono (i più giovani si aggiustano con gli smartphone però i più anziani non riescono a fare nulla, anche quando vengono aiutati dai nostri infermieri a parlare grazie a un tablet hanno comunque enormi difficoltà) e c’è quella degli operatori che fanno da tramite con i familiari, ma sempre e solo per telefono, senza potersi rapportare direttamente e guardare negli occhi, portandosi poi a casa il peso di giornate lunghe e sempre molto complicate».