di Ettore Grassano
Il risultato del referendum dello scorso settembre lo ha ribadito senza tentennamenti: il numero di parlamentari della Repubblica va ridotto in maniera significativa. La Camera dei Deputati passerà da 630 a 400 eletti, e il Senato da 315 a 200. Ma come, in che tempi e con quali conseguenze su questa legislatura, e sulla prossima? Riduzione dei parlamentari significa, ipso facto, anche modifica della legge elettorale, o i due percorsi potrebbero anche non incrociarsi?
Federico Fornaro, oltre ad essere Capogruppo di Liberi e Uguali alla Camera dei Deputati, è anche riconosciuto come uno dei maggiori esperti di sistemi elettorali del nostro Parlamento. A lui ci siamo rivolti per capire quali saranno i prossimi passi nell’iter di modifica delle ‘regole del gioco’, e anche quali potranno essere le ripercussioni, sul piano delle alleanze, e del ridisegno ‘dell’offerta politica’ nei prossimi anni.
On. Fornaro, il referendum ha parlato chiaro, ma il bello viene adesso: in quali tempi il Parlamento riuscirà ad ‘autoridursi’? E ci sarà davvero anche una nuova legge elettorale, o solo una ridefinizione dei collegi?
Cerco di rispondere da tecnico, spogliandomi da interessi di parte. Il risultato del referendum per volere della maggioranza degli elettori, riduce il numero dei parlamentari e impone una immediata ridefinizione dei collegi di Camera e Senato perché non si può stare senza una legge elettorale funzionante. L’approvazione di una nuova legge elettorale è altra questione, di cui peraltro già si parlava, e che ora ovviamente si ‘intreccia’ all’altra. Per capirci: ridurre il numero dei collegi, facendoli diventare più ampi, senza modificare l’attuale legge elettorale, il cosiddetto ‘Rosatellum’, esporrebbe il sistema democratico a significativi rischi di ‘riduzione di rappresentanza’.
E significherebbe, in concreto, anche consegnare praticamente tutti i collegi uninominali al centro destra….
Questo a condizione di ragionare su tre schieramenti, mentre se gli schieramenti diventassero due, ossia l’attuale Governo e l’attuale opposizione, probabilmente ci sarebbero due scenari territorialmente molto diversi, nel centro nord e nel centro sud. Ma i rischi a cui mi riferisco sono altri, meno legati all’orientamento dell’elettorato nel breve periodo. Penso soprattutto al pericolo di un Paese in cui la voce dei territori e delle comunità locali venga sacrificata, e pressoché tacitata, in nome della governabilità garantita dall’attuale maggioritario.
L’alternativa quindi è un proporzionale stile Prima Repubblica?
Non necessariamente, nel senso che alcuni correttivi possono, e forse devono, essere messi in campo anche in caso di una legge su base proporzionale. Ma andiamo con ordine. Nei prossimi giorni si aprirà in Parlamento la discussione sulla proposta di legge di riforma costituzionale, a mia prima firma, che propone di eleggere il Senato su base non più regionale, ma circoscrizionale, come oggi succede per la Camera, e di ridurre da 3 a 2 i delegati delle Regioni per l’elezione del Presidente della Repubblica. Alla Val d’Aosta continuerà ad essere riconosciuto un delegato, come succede oggi. Naturalmente occorrerà ragionare su come individuare le circoscrizioni, che potrebbero anche in qualche caso essere interregionali, in maniera tale da garantire il massimo di rappresentanza. Intanto, sempre in questi giorni, è in terza lettura alla Camera la legge che attribuisce anche i diciottenni il diritto di voto anche al Senato. Sempre con l’obiettivo di arrivare ad una massima uniformità di criteri elettivi tra i due rami del Parlamento.
Il che però, secondo alcuni, non risolve una questione di fondo, ossia quella del bipolarismo perfetto: oggi servono ancora due Camere sostanzialmente identiche, con duplicazione/rallentamento dei processi legislativi?
Fu una scelta dei costituenti, e chi ha cercato di modificarla, penso al referendum del 2016, è stato bocciato dagli elettori. Credo che oggi il punto non sia eliminare il Senato, ma ragionare sulle competenze delle due Camere, che possono essere anche diversificate: attenzione però, senza arrivare ad una Camera di serie A, e ad un Senato di serie B, come qualcuno sembra vagheggiare. Una simile ipotesi mi vede assolutamente contrario. Semmai, dalla prossima legislatura, con complessivi 600 parlamentari contro i 945 attuali, credo che sarà possibile ragionare su sedute comuni molto più frequenti: non solo per eleggere il Presidente della Repubblica e i membri di Csm e Corte Costituzionale, ma per legge di bilancio, trattati internazionali, conversione di decreti legge.
Parliamo della prossima legge elettorale: sarà un proporzionale con sbarramento al 5%, come scrivono i giornali?
Questa è l’ipotesi a cui si sta lavorando, contenuta nella proposta di legge Brescia, depositata il 9 gennaio, e che risponde ad un preciso accordo tra le forze dell’attuale Governo che risale allo scorso anno, con una differenza di opinioni sulla soglia di sbarramento. Per la Camera si prevede l’eliminazione dei collegi uninominali, e l’assegnazione su base proporzionale di 391 seggi (8 sono quelli destinati ai parlamentari eletti all’estero e uno alla Valle d’Aosta). La soglia di sbarramento passerebbe dal 3 al 5%, il che, a mio modo di vedere, mette a forte rischio la rappresentanza di alcuni territori, pur rimanendo da definire quali saranno i collegi. Vero è peraltro che sarebbe introdotto il cosiddetto diritto di tribuna: ossia, senza entrare troppo nel tecnico, chi ottiene un quoziente pieno in almeno 3 circoscrizioni, o in una Regione per il Senato, elegge comunque il proprio rappresentante, anche se dovesse rimanere sotto la soglia del 5% a livello nazionale.
Ci chiarisca meglio un punto: ogni singolo partito avrà un solo candidato all’interno di ogni collegio, o esiste anche l’ipotesi di un ritorno alle preferenze?
In questo momento non esiste nulla di predefinito. Personalmente dico attenzione alle trappole: il ritorno alle preferenze, magari presentato come un aumento di democrazia e di potere di scelta dell’elettore, in un contesto di collegi più ampi, significherebbe privilegiare i più forti e i più ricchi, non la democrazia. Esistono in realtà altre alternative alle liste bloccate, senza tornare alle preferenze: penso ad esempio al collegio uninominale di partito, già in vigore per l’elezione del Senato fino al 1992. Ossia un partito presenta il suo candidato in ogni collegio, e vengono eletti in Parlamento i candidati che prendono una percentuale maggiore nella circoscrizione. Personalmente sono per superare l’attuale meccanismo delle liste bloccate, senza però tornare automaticamente alle preferenze: ma è chiaro che questo è uno dei punti su cui serve nei prossimi mesi un dibattito parlamentare chiaro, forte, trasparente.
Par chi capire che il processo non sarà breve, e che comunque questa maggioranza non abbia nessuna intenzione di accelerare il percorso verso elezioni anticipate. Insomma, a prescindere dai tempi della nuova legge elettorale, la legislatura arriverà alla scadenza naturale, primavera 2023?
Gli esperti dicono che l’ultima finestra utile per elezioni anticipate potrebbe essere la prossima primavera. Poi scatterà il semestre bianco che porterà all’elezione del capo dello Stato, e mi pare improbabile che a quel punto, primavera 2022, il nuovo Presidente della Repubblica possa esordire sciogliendo le Camere. In ogni caso, questa legislatura potrebbe finire in anticipo solo per implosione della maggioranza, che ritengo improbabile, pur con le incognite legate al Movimento 5 Stelle, e alle sue dinamiche interne. Pur nella diversità di posizioni, credo esista nei partiti di Governo una comune consapevolezza di quanto la situazione di emergenza, sia sanitaria che economica, imponga il massimo senso di responsabilità.
Nel 2021, però, si voterà in alcune tra le maggiori città italiane: Roma, Milano, Napoli, Bologna, e anche Torino: sotto la Mole secondo lei ci potrebbe essere un unico candidato, o candidata, sindaco per centro sinistra e 5 Stelle?
Mi pare improbabile: i 5 Stelle sono attualmente alla guida della città, il centro sinistra all’opposizione. Più naturale pensare a candidati separati, magari scelti con una sensibilità politica tale da consentire una convergenza in caso di eventuale ballottaggio. Le comunali del 2021 nelle grandi città comunque saranno davvero una bella cartina di tornasole, un test di quelli pesanti…
Il centro sinistra, tanto per cambiare, sembra a metà del guado. Partito Democratico in cerca di identità, e incapace di vera egemonia. Tutte le altre forze a rischio sopravvivenza, in caso di proporzionale con sbarramento al 5%. Compreso il suo partito, Articolo 1. Da qui al 2023 cambierà qualcosa?
Il centro sinistra è in effetti oggi un cantiere aperto, e credo che i prossimi 12 mesi saranno decisivi. Ci sarà il Congresso del PD, ma anche mi auguro un forte confronto critico all’interno delle altre forze. La realtà ci dice che gli attuali contenitori sono insufficienti, tutti a mio parere. Serve un nuovo vero progetto politico se vogliamo tornare in sintonia con una parte significativa di elettorato potenzialmente di sinistra, ma oggi disperso tra astensione, 5 Stelle, e probabilmente anche altrove. Come esponente di Articolo 1 – Leu mi sento di dire che, oggi, fuori dalla coalizione di centro sinistra non c’è davvero ossigeno: ma forse ce n’è poco anche dentro la coalizione, perché in fasi come quelle che stiamo vivendo l’elettorato tende a polarizzarsi, e nel centro sinistra sceglie il partito ‘diga’ contro le destre, ossia il Pd. Il Partito Democratico da solo, però, è a sua volta insufficiente. Siamo un cantiere aperto, appunto: alla ricerca di una proposta forte e credibile, capace di risvegliare l’interesse degli elettori.