Il Ragno del Tempo di Maico Morellini [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

Gradito ritorno su ALlibri quello di Maico Morellini pronto a tenerci compagnia con il suo nuovo romanzo Il ragno del tempo edito da Providence Press. Già noto per aver vinto il prestigioso Premio Urania di Fantascienza con Il re nero e autore de I Diari dell’Apocalisse per le Edizioni Watson con questo nuovo romanzo  Morellini ci confida che …qui dismetto i panni dell’autore di fantascienza e indosso i vestiti eccentrici del bizzarro. Il ragno del tempo è un romanzo breve, ambientato ai giorni nostri, che apre finestre su un mondo inquieto e inquietante visto e raccontato dai protagonisti.”

Ne Il ragno del tempo Morellini ci racconta di Manuel Barchi richiamato da Londra in Italia dopo la morte dello zio Ettore: Manuel è l’unico Barchi rimasto in vita perciò viene coinvolto nella strada risoluzione dell’eredità di Ettore. Tre studi notarili – uno di Bologna, uno di Torino e uno di Pisa – si danno appuntamento tra i colli bolognesi, a Suviana, presso la strana villa che era di Ettore per aprire simultaneamente le istruzioni che Ettore barchi ha lasciato a Costi, Dutto e Pagni, i tre notai. La clausola notarile è semplice: Manuel deve entrare nella villa e una volta dentro, una volta raggiunto il centro della grande casa persa tra i colli, sarà erede a pieno diritto dell’eredità di Ettore Barchi.

Manuel e il notaio Dutto entrano. La villa è strana. Geometrie e stili improbabili, e meccanismi altrettanto misteriosi ricoprono le pareti di ogni stanza. Una volta raggiunto il centro della casa quei meccanismi si mettono in modo attirando qualcosa.

Due giorni dopo Rebecca Aimi, un’investigatrice di Milano assoldata dallo studio notarile di Torino per la scomparsa del notaio Dutto, sta viaggiando verso Avigliana, paese all’imbocco della Valle di Susa, per incontrarsi con Elia Sarich, un vecchio professore in pensione che potrebbe aiutarla nello scoprire cosa è successo al notaio Dutto. Rebecca trova in Elia un vecchio molto eccentrico. Rinchiuso nella sua villa perfettamente insonorizzata, ha quasi interrotto ogni rapporto con l’esterno e dice di non poter entrare in contatto con nessuna musica, in qualunque formato. Questo a seguito di un incidente avvenuto molti anni prima quando Elia, mentre era sulle tracce di uno studioso del tredicesimo secolo chiamato Dieterich Pohl, è entrato in possesso di un progetto di un carillon firmato dallo stesso Dieterich. Elia ha costruito il carillon ma una volta messo in funzione gli è successo qualcosa che lo ha quasi ucciso. Da quel momento in poi, il vecchio non può più ascoltare nessuna musica perché il solo ascolto attira qualcosa che ne minaccia la vita.

Elia rivela di conoscere Ettore Barchi, rivela che anche Ettore era uno studioso di Dieterich Pohl a quando scopre che l’amico è morto e che nella sua eredità c’è una casa tra i colli bolognesi, teme si tratti di un altro dei progetti di Pohl trasformati in realtà. E teme gli effetti di qualcosa di così grande, ricordando quanto è stato capace di ferirlo un semplice carillon.

Decide di accompagnare Rebecca verso Bologna per scoprire cosa è successo a Dutto e di conseguenza anche a Manuel Barchi. Arrivati alla villa Rebecca e Dutto scoprono che l’intero edificio è stato costruito per attirare oscure entità dagli scopi e dai rivolti a dir poco imprevedibili. Rebecca entra nella villa e scoprirà quali sono le forze che Pohl cercava di controllare con i suoi costrutti.

 

Buona lettura con un estratto de Il ragno del tempo.

 

Il fuoristrada tossì una nube di polvere mentre imboccava una vecchia mulattiera riattrezzata, sobbalzò inciampando su alcune buche e alla fine trovò il suo assetto: il bosco lo inghiottì insieme alla luce del mattino.

«Manca molto?» chiese Manuel Barchi mentre allungava il collo verso lo spazio tra i sedili e abbassava sul naso gli occhiali da sole. All’improvviso si era fatto molto buio.

«Ehm… no,» tentennò l’uomo sul sedile del passeggero.

«O almeno credo.» Poi piegò la testa verso l’autista.

«Turri?»

«Non tanto,» rispose il pilota. «Ma nemmeno così poco. Sette chilometri, otto al massimo.» Sterzò per evitare l’ennesima buca. «Tra un paio di tornanti la strada peggiorerà. E con i temporali dei giorni scorsi potremmo trovare qualche sorpresa,» aggiunse.

Manuel sbarrò gli occhi, aprì la bocca per protestare ma poi inghiottì il malumore lasciandosi ricadere sul sedile posteriore. Rifugiò lo sguardo oltre il finestrino.

«Torneremo a Bologna in tempo, vedrà!» chiocciò il notaio tornando a fissare la strada.

Manuel non rispose. In tempo per cosa? Era venerdì, nella migliore delle ipotesi sarebbe rientrato a Roma in tarda serata e da lì avrebbe preso l’aereo per Londra non prima del pomeriggio di sabato. Una settimana intera persa. Una settimana sprecata per inseguire i deliri di uno zio che non sentiva da più di dieci anni. Uno zio che era morto di ischemia e al cui funerale non era nemmeno andato.

Aveva cercato di fare il prima possibile, eppure accumulava ritardi su ritardi. Quando era stato raggiunto via e-mail dal notaio Costi – la stessa persona che ora si agitava sul posto del passeggero – aveva organizzato tutto in fretta cercando di far coincidere voli e treni in modo da risolvere la faccenda dell’eredità in un paio di giorni al massimo, ma una volta arrivato a Bologna erano cominciate le grane.

«Perché non mi ha avvisato prima?» aveva sbottato,

decidendo al momento del loro primo incontro che il piccolo Gianluca Costi – uomo contratto dalla voce nasale – non gli sarebbe mai stato simpatico.

«Perché non lo sapevamo nemmeno noi!»

Una giustificazione che nei quattro giorni successivi avrebbe sentito fin troppe volte. Una giustificazione che però, gli seccava ammetterlo, aveva le sue ragioni: il testamento di Ettore Barchi era una vera e propria caccia al tesoro.

C’erano clausole legate tra loro, passaggi testamentari che potevano essere consultati solo al verificarsi di particolari condizioni. Non un rebus, quanto un complesso mosaico composto da parecchi tasselli legati uno all’altro. Il primo blocchetto, quello che poteva dare il via alla sequenza di eventi che stava per culminare lì nell’Appennino tosco-emiliano, aveva un nome e un cognome:

Manuel Barchi. Lui era il primo tassello. Lui era l’elemento capace di sbloccare tutta quella strana

situazione.

Suo zio paterno, Ettore Barchi, aveva nominato ben tre studi notarili differenti. Uno del capoluogo emiliano, rappresentato da Costi, uno di Pisa e – sapeva Dio per quale motivo – il terzo e ultimo con sede legale a Torino. Erano entrati in quello strano gioco uno dopo l’altro, come tessere di un domino, e solo la presenza di tutti e tre i notai insieme al nipote, riuniti nell’antica villa di

Ettore, avrebbe svelato i passaggi successivi del lascito testamentario.

Perciò Manuel era rimasto a Bologna due giorni interi mentre Costi sbrogliava la matassa mettendosi in contatto con Pisa e Torino. Due giorni nei quali, a più riprese, aveva quasi deciso di rinunciare. Ma qualcosa in tutte quelle stranezze era stata capace di fargli cambiare idea. Forse lo strano non-rapporto che aveva sempre avuto con lo zio, forse il fatto che negli ultimi anni di vita

Nello Barchi – suo padre – ricordasse molto di frequente episodi legati al fratello Ettore. O forse solo la nostalgia di qualcosa che lo riportasse vicino a una famiglia della quale non restava praticamente più nulla. Qualunque fosse il motivo, era rimasto lì. Un’ora dopo l’altra.

Poi mercoledì sera, il giorno precedente, erano partiti da Bologna diretti verso il lago di Suviana con l’obbligo di pernottare a Badi, o a Bargi, gli unici due paesi attrezzati per ospitarli per la notte. Le indicazioni di Ettore Barchi erano chiare: tutti sarebbero dovuti arrivare alla villa lo stesso giorno, la mattina del giovedì, armati di pazienza e di una chiave che – ormai Manuel ne era certo – era destinata ad aprire una cassetta di sicurezza in possesso di uno degli altri notai.

«Una faccenda complicata,» aveva detto ai suoi datori di lavoro. «Un casino,» si era sfogato con gli amici di Londra. Un casino che, quando non lo faceva incazzare a morte, era persino divertente.

Lui e Costi si erano fermati la notte prima in un grazioso bed & breakfast di Badi in attesa che li raggiungesse qualcuno capace di condurli senza perdere altro tempo nella dimenticata villa di Ettore. Poco dopo l’alba si era presentato Alan Turri, un ruvido montanaro che conosceva ogni curva dell’Appennino come le sue tasche, e li aveva caricati senza tante smancerie sul fuoristrada.

Si erano fermati sul lago, un specchio d’acqua artificiale che era, a detta di Turri, profondo più di novanta metri, e lì avevano consumato una buona colazione nel chioschetto dal lato di Badi.

A distanza di quasi un’ora erano lì, arrampicati su una strada che diventava sempre più simile a un sentiero, prigionieri di un bosco talmente opprimente da far perdere la cognizione del tempo.

«Ci sono altre vie di accesso alla villa?» chiese Manuel.

Era passata una mezz’ora buona da quando avevano abbandonato la statale per scalare il fianco della montagna a bordo del fuoristrada. Trenta minuti il cui silenzio era stato interrotto solo dallo scricchiolare della ghiaia sotto gli pneumatici e dagli schianti di qualche ramo finito sulla mulattiera e tritato dal fuoristrada.

«C’è un sentiero sull’altro lato della montagna, ma nessuna macchina può passare di là,» rispose ruvido Turri.

«L’unico modo per salire da quella parte è a piedi.»

Un rumore distante si fece largo, a poco a poco, oltre i vetri della vettura. Un rombo che salì di intensità fino a intimidire le vibrazioni che salivano dallo sterrato.

«O arrivare direttamente alla villa in elicottero,» si intromise Costi senza riuscire a nascondere l’invidia.

«In elicottero? »

«Il notaio Dutto non ama perdere tempo,» aggiunse Costi.

«I torinesi?»

«Proprio loro.»

«Non ama perdere tempo ma di certo vuole sprecare denaro,» commentò Manuel lasciando intendere che non aveva intenzione di dare corda alle lamentele di Costi.

Abbassò il finestrino del fuoristrada e cercò qualche frammento di azzurro attraverso l’intreccio di rami. Si fece guidare dal rumore e intercettò l’elicottero: sottile e nero con qualche chiazza di giallo sembrava un grosso calabrone. Li stava superando proprio in quel momento, impegnato in una virata verso sinistra. Pochi secondi e la carlinga scura sparì inghiottita dalla matassa di foglie.

«Come pensano di arrivare alla villa? Col paracadute?» chiese Manuel. Non richiuse il finestrino, il bosco soffiava verso di lui un’aria fresca.

Di nuovo Costi piegò la testa in quel fastidioso modo da uccello e piazzò lo sguardo alla sua sinistra. «Non sono mai stato a villa Barchi,» specificò.

«Il parco è grande abbastanza per far atterrare un elicottero anche più grosso di quello.» Turri aveva un modo di fare schietto. Essenziale.

«Lei è stato a casa di mio zio?»

«Qualche volta,» sterzò Turri con la voce e con il volante.

«Ho accompagnato Barchi, prima che comprasse la villa. Ma non sono mai entrato,» aggiunse.

L’informazione, nella sua banalità, colpì Manuel

come uno schiaffo ben assestato: «Mio zio ha comprato quella casa? Non l’ha costruita lui?» si stupì.

«No. Sta lì da molto tempo.»

«E chi ci abitava prima?» domandò Manuel.

«Non ne ho idea. Tutti sanno che è lì, qualcuno conosce le strade e i sentieri per raggiungerla, ma pochi hanno avuto a che fare con i padroni.» Turri scalò una marcia e spinse il fuoristrada oltre un tornante più ripido degli altri. «Ho accompagnato suo zio, niente di più,» ripeté incurvandosi appena sul volante. «Proprio come sto accompagnando voi due,» aggiunse.

«Tabor Suez,» si fece avanti Costi, aggrappato alla maniglia.

«Era il vecchio proprietario ma non ha mai vissuto qui, credo abitasse a Toledo. Suo zio ha comprato la villa senza incontrarlo. è stato il notaio Dutto a seguire l’intera trattativa,» concluse Costi lanciando un’occhiata saccente verso Manuel. «Naturalmente Dutto mi ha dato

solo poche informazioni in merito. Potrà chiedere a lui, non appena questo sterrato finirà. Se finirà.»

«Naturalmente,» digrignò Manuel. «E i pisani? Come raggiungeranno la villa? Con un carro armato?»

Costi ridacchiò tutto di naso, come un ragazzino davanti al suo primo porno. «Lei ci scherza sopra ma il notaio Pagni sarebbe capace di farlo. Anche se credo che sceglierà una via ben più scomoda.» Poi infilò l’indice sotto il colletto, lo tirò e condì tutto con una smorfia di affanno. «A piedi, lungo il sentiero dall’altro lato della montagna. Pagni è un appassionato escursionista.»

«A piedi?»

«Una bella scarpinata,» intervenne Turri con un velo di ammirazione nella voce.

«Ma dove cazzo sono finito,» sbottò Manuel. Costi arricciò il naso come aggredito da un cattivo odore mentre Turri abbozzò un sorriso.

Si rifugiò di nuovo fuori dal finestrino frugando nella memoria a caccia di qualche ricordo. Perché suo padre e suo zio avevano smesso di frequentarsi? Manuel ricordava i Natali insieme, molte domeniche, quasi tutte le feste comandate. Ricordava i regali che Ettore portava dai viaggi e i silenzi nei quali si trincerava ogni volta che qualcuno cercava di scoprire qualcosa di più sulle

sue scorribande in giro per il mondo.

Ricordava un Natale senza di lui, il primo, all’inizio degli anni ’90. Perché non li aveva raggiunti? Strizzò gli occhi cercando di ripescare qualche dettaglio in più ma stava chiedendo troppo alla memoria. Era dopo quel Natale mancato che le visite e i regali di Ettore si erano fatti sempre più radi?