di Danilo Arona
Oggi, mentre ne scrivo, è il compleanno di Bobo.
Bobo, al secolo Roberto Vergagni, è stato l’uomo – in ambito locale, sul pianeta c’erano i Beatles e i Rolling Stones e io per fortuna non partii mai per il Vietnam – l’uomo, dicevo, per il quale ho deciso di suonare la chitarra.
Bobo nel 1965 era già un funambolo. Magari non l’avresti detto a vederlo perché lui, a differenza nostra, non si fece mai crescere i capelli né calzò jeans sdruciti e a vita bassa sopra sporchi stivaletti col tacco. Ma quando imbracciava la Gibson sul palco non ce n’era per nessuno. Era un grande maestro e, solo a studiarne la mano sinistra, imparavi un mucchio di cose.
Ho continuato a farlo nel corso degli anni anche perché lui mi ha permesso, spesso, di stare con lui sul palco e di mettere in piedi – al volo e improvvisando – quelle che abbiamo chiamato in gergo “dueling guitars”.
Ogni serata con lui, spesso anche con Franco Rangone che cantava, è stata una goduria, vera gioia per l’anima. Soprattutto ci si lasciava andare ai suoi amori di genere, il jazz, la fusion, i classici. Non disdegnava il rock e, quando ci buttava, lo eseguiva alla grande. Ma capivi che il cuore musicale batteva altrove. Wes Montgomery e famiglia, giusto per capirsi.
Bobo oggi di tanto in tanto mi telefona.
Mi dice con la sua inconfondibile voce: «Ciao Mac, come stai?»
Bobo mi chiama “Mac” ed è l’unico in Alessandria che mi si rivolge con tale nomignolo, pronunciandolo correttamente all’inglese “Mec”. Non ho mai capito bene perché mi chiami “Mec” ma va bene così.
Io che sto bene abbozzo un iperbolico diversivo per non rispondere “bene” perché è Bobo, per quanto gioviale e all’apparenza uditiva allegro, a non star bene. Qualche anno fa un malore subdolo e maledetto lo ha privato dell’autonomia di gambe e braccia. Ha fatto qualche moderato progresso con la fisiatria, ma il fatto è che oggi Bobo non può suonare.
Eh, proprio così: quello stupendo chitarrista la cui mano sinistra mi ha spinto a suonare e per il quale ho persino scritto un racconto musical horror dei miei prediletti, La mano sinistra del diavolo (pubblicato da Mondadori in un’antologia che si chiama 14 colpi al cuore, che ha avuto persino un’edizione francese, Portes d’Italie, a cura di Serge Quadruppani), lo avete letto bene, è un chitarrista che non può suonare.
Accidenti, non si fanno classifiche da queste parti perché per i chitarristi bisognerebbe operare una tecnica distinzione fra i generi praticati. Ma, al di sopra dei generi, Bobo è il numero 1. Uso il presente perché chi è chitarrista lo rimane per sempre. Al di là dei malori subdoli e maledetti.
Tornando alla telefonata, diciamo qualche stupidaggine di circostanza. Io un po’ imbarazzato e lui per niente, per quel che percepisco. Lui ha sempre qualche informazione da chiedermi, giusto il pretesto per la telefonata.
Capisco bene queste tattiche da Gemelli. Sono Gemelli pure io. Siamo duali. E, se all’altra mano fosse rimasta qualche parvenza di vita, sono certo che Bobo s’inventerebbe qualcosa per calcare un palco. I Gemelli – parlo in generale, ma potrei scendere nel particolare – sono dei timidi esibizionisti. Il palco è casa loro, ma un po’ se ne vergognano. Beh, ci ho fatto caso nel corso di tutti questi anni (io ne ho appena compiuti 70 e Bobo due di più), cogliendo la contraddittorietà a ogni sincera ammirazione esibita nei suoi confronti: Ma dai, smettila, Mec! Quelli bravi sono altri!
Eh, figurati, Bobo, dobbiamo salire mooolto in alto per trovare mani sinistre come la tua. In ogni caso, in tanta modestia immotivata fermenta un po’ di quella sincera Alessandria che si ritrae sempre un po’ in disparte quando le luci della ribalta, passami la retorica un po’ d’avanspettacolo, corrono il rischio di abbagliare troppo: il sommo Eco era così, Gianni Rivera forse, le ragazze alessandrine tipo le Parodi no, ma qui parliamo di uomini. Insomma, a volte siamo dei murgnaton, anche quando non è il caso di esserlo.
E tornando a te, ti auguro buon compleanno in una perfetta concomitanza temporale, che sarà però stravolta dalla logica del Superstite. Quindi te lo leggerai tra una settimana.
Comunque non c’è logica da nessuna parte. Ho qui accanto al PC una foto della Club House Band, fiammeggiante meteorite post-alluvionale che mettemmo in piedi nel 1995 per festeggiare il ritorno alla vita del Club House dell’Osterietta dopo la catastrofe dell’alluvione. Santi Numi, la foto sembra peggio di un film di Romero; i vivi, più o meno tutti interi, siamo io ed Enrico Ziliani alla batteria, poi Bruno Rangone al basso e Adriano Brocanello al piano che ci hanno lasciato quaggiù troppo presto. Poi tu in primo piano con la fiammeggiante Gibson. Beh, insomma. È solo una foto… Ma se infilo quel CD del ’95 nel lettore, carissimo amico, quando arriva la svisata solista ancora non ce n’è per nessuno.