di Danilo Arona
Ora che si stanno purtroppo quasi azzerando, mi sembra giusto fare l’inventario. Parlo dei cinema di Alessandria, quella dove si è formato anche mio malgrado un certo gusto cinematografico che più o meno tutti sapete dove pende. È probabile proprio che, con un senso di ribellione alla Luis Buňuel per capirci, il mio amore per l’horror e per il gotico sia scaturito proprio dall’intensa frequentazione dei cinema parrocchiali che in quella città non più esistente abbondavano, soprattutto nelle versioni estive.
Cominciamo dal primo in classifica per frequentazione, ovvero San Rocco, ubicato nella piazza omonima, che consisteva nel cortile fiancheggiante la chiesa con alle spalle la sala invernale, riscaldata negli anni Cinquanta da una stufa a legna e a carbone alimentata spesso in tempo reale dagli stessi spettatori. Il classico di San Rocco era la gazzosa (Frau) consumata con stringa di liquirizia aperta sui due lati con tanto di bottiglietta volante sul palchetto di legno a fine bevuta. Al cinema San Rocco è indubbiamente nato il mio immaginario fantascientifico perché lì ho visto perle come La terra contro i dischi volanti, Guerra tra pianeti, Il pianeta proibito, eccetera (l’elenco è piuttosto lungo).
Meno frequentato da parte mia era il San Francesco, stradinom “Dai Frati”, ovviamente sito in via San Francesco d’Assisi. Seguivano: il cinema Rovereto, accanto a Santa Maria di Castello, spazio suggestivo e semibombardato; il Supercinema estivo, alle spalle del Vescovado, uno scomodo e surreale cortile triangolare dallo schermo mignon che faceva debordare il cinemascope sui muri; l’Aurora, di fianco alla chiesa della Pista, dove non erano improbabili le battaglie fra bande a suon di sassi perché il cortile ne abbondava.
Non erano parrocchiali, ma scalcinati altrettanto: una versione estiva del cinema Alessandrino, praticamente rovine sopravvissute all’incendio conseguenza del bombardamento del glorioso Teatro Comunale situato in via Verdi dove sono certo d’avere visto la versione 3D de La maschera di cera con Vincent Price; il cinema Splendor, prospiciente il cavalcavia di Viale Brigata Ravenna laddove oggi c’è un noto circolo bocciofilo, locale dei più atipici sul serio, capannone tutto in lamiera aperto sui due lati, così da assicurare la circolazione d’aria e la frescura, se c’erano, e la proiezione anche in caso di pioggia. Peccato che, quando questa arrivava alla maniera classica di un temporale estivo, il frastuono sonoro era tale che del film non sentivi più nulla. Inoltre lo Splendor apriva sempre alle 21, ma lì attaccavano subito con il secondo tempo in modo da guadagnare qualche spettatore in più con lo spettacolo successivo. Uno strazio vedere il film partire dalla metà.
E finiamo in gloria con il cinema del Dopolavoro Ferroviario, per un po’ di tempo detto Ambra, che ha resistito indomito sino a qualche anno fa e che scalcinato non era. Le sue “spoglie”, si fa per dire, sono ancora ben visibili di fianco al posteggio giù dal cavalcavia. È stato forse lo spazio più glorioso e senza dubbio quello “dedicato” al divertimento serale di un intero quartiere, il rione Pista, in diretta concorrenza con l’Aurora Ed è stato anche l’unico, visto che si trovava a pochi metri dalle linee ferroviarie, a dimostrarsi provvisto di volume “modulabile”. Infatti, quando il treno transitava con grande frastuono, dalla cabina c’era sempre l’accortezza di alzare il volume al massimo in modo che non si perdessero particolari importanti nelle parti dialogate del film. Questo accadeva in media almeno una dozzina di volte per sera. E l’operatore di cabina si dimostrava sempre così abile e avvezzo da anticipare dei secondi necessari lo sgradevole sferragliare dei treni in transito – di certo possedeva l’orario delle partenze e degli arrivi…
Se mi chiedete a quale di questi mi sento più legato, non esiste dubbio, di certo San Rocco. Abitavo in Corso Virginia Marini e nel quartiere avevo tutti gli amici. Di giorno andavo lì a giocare, In ogni caso vedere un film a San Rocco era spesso un’ appagante esperienza felliniana. Se d’inverno accedevi al salone di sicuro ti ritrovavi il biglietto aumentato di 5 lire, accrescimento giustificato con la voce “soccorso invernale”. Più d’una volta poteva capitare di vedere, che so, il primo tempo dei Tre Moschettieri e il secondo tempo di qualche western con Randolph Scott. Momento clou: dato che lo stanzone rettangolare era riscaldato nelle sere di gelo da una stufa a legna il cui tubo di raccordo pendeva pericolosamente sulle teste di incauti spettatori delle ultime file, alla fine, a furia di gufare, accadde che la la stufa prese fuoco e il tubo di raccordo crollò di sotto con una nuvola di fuliggine che intossicò parecchi astanti e la proiezione dovette interrompersi, con tutta la sala che pareva una canna fumaria.
Non penserete mica che quella gente poi tornasse a casa senza avere visto la fine del film? Neppure per sogno. Si “sanificò” l’ambiente spalancando per qualche minuto le cosiddette uscite di sicurezza e le proiezioni ripresero dal momento in cui si erano interrotte.
Che film era in programma? Non ci giurerei, ma si trattava del vecchissimo Nabonga il terrore della giungla del 1944.