di Enrico Sozzetti
«Chi fa ricerca cura meglio, è un assioma confermato». Giacomo Centini, direttore generale dell’azienda ospedaliera ‘Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo’ di Alessandria, lo dice in modo pacato, senza enfasi. E di fianco a lui, Guido Chichino (nella foto sotto), direttore delle Malattie infettive, rilancia con la concretezza del clinico che snocciola casistiche e terapie, studi e riflessioni. Al centro del primo bilancio ufficiale al tempo del coronavirus, vi sono la ricerca, la produzione scientifica e le collaborazioni messe in campo dall’azienda hub di un territorio che è stato investito dalla pandemia in una misura tale che ha rischiato di essere travolto dal covid19.
«Cura e ricerca hanno consentito di dare risposte efficaci nella fase di emergenza. L’approccio alla gestione dell’epidemia è stato scientifico (basandosi sulle ricerche internazionali, a partire da quelle svolte nei mesi scorsi in Cina) e concentrando gli sforzi sulle linee di cura più accreditate, contribuendo così a spingere verso l’alto il livello di conoscenza» aggiunge Centini. La risposta sul piano della ricerca e sul piano organizzativo è avvenuta anche grazie al consolidamento delle attività collegate all’Infrastruttura Ricerca Formazione e Innovazione diretta da Antonio Maconi, inserendosi quindi «come autorevole contributo nel ricco panorama degli studi e delle ricerche in corso». L’interesse su Alessandria è stato dettato anche dall’elevata percentuale di casi («Abbiamo a disposizione, fra Aso e Asl, l’ottava casistica italiana, come zona tra le più colpite») e i risultati, finora, sono 32 progetti attivati: 8 tipologie di farmaci utilizzati in modo sperimentale; 21 studi osservazioni e progetti di ricerca; 70 ricercatori coinvolti. «L’Infrastruttura – racconta Maconi – ha risposto mettendo in campo tutte le competenze, dalla rassegna quotidiana delle evidenze realizzata dal Centro Documentazione, al Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica che in collaborazione con le Università del Piemonte Orientale e di Padova ha costantemente effettuato il monitoraggio delle stime previsive sul totale dei casi della provincia di Alessandria». Inoltre, il Clinical Trial Center, come spiega Annalisa Roveta, ha coordinato gli studi, affrontati secondo quattro direttrici: dati, trattamenti, aspetti clinici, aspetti organizzativi. Si è aggiunto poi un quinto filone, legato alle valutazioni di tipo ambientale che viene realizzato in collaborazione con l’Università del Piemonte Orientale, di cui l’azienda è partner del progetto per la task force ricerca covid avviata dall’Upo.
La pratica clinica
Il primo obiettivo di un medico è curare il paziente. «Non siamo un Irccs (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico), speriamo certo di diventarlo, ma al momento non abbiamo ancora tutti gli strumenti di un Irccs e si fa quello che si riesce a fare, ma noi – sono parole di Chichino – lo abbiamo fatto bene e siamo riusciti, in emergenza, a sfruttare tutte le evidenze scientifiche che si sono manifestate, riuscendo ad applicarle alla pratica clinica. È un modo un po’ empirico, certo, ed ecco perché ora, uscendo dalla fase di emergenza, vanno concretizzati i dati». Il nodo è il numero dei pazienti a disposizione. «Per fare questi studi è necessario raggiungere un certo numero di malati, cosa rispetto alla quale non mancano le difficoltà. Più avanti si potrà tornare imboccare un percorso a ritroso per svolgere gli studi epidemiologici con successo». Oggi i pazienti covid ricoverati ad Alessandria sono otto, tutti nel reparto di Chichino (i posti letto in Malattie infettive sono venti in tutto). Nel periodo di massima emergenza hanno oscillato fra i 150 e i 180.
L’esperienza in reparto
Ma come si è mosso il direttore del reparto? Lo racconta lo stesso Chichino. «In Piemonte gli infettivologi sono quattro ospedalieri e due primari universitari. Fra di noi ci siamo subito organizzati e coordinati e il 28 gennaio è stato messo a punto un algoritmo di possibili farmaci da utilizzare, a cominciare dall’idrossiclorochina e dall’azitromicina, il tutto mutuato da esperienze cinesi. I farmaci sono stati somministrati in modalità ‘off-label’ (usati in condizioni che differiscono da quelle per cui sono stati autorizzati). Oltre a quelli di uso prettamente ospedaliero, abbiamo visto che l’idrossiclorochina (il nome commerciale è Plaquenil) è stata quella che ha dato i risultati migliori. La nostra è una esperienza “a naso” da cui è comunque emerso che l’uso precoce ha mitigato alcuni effetti della malattia. Mancano comunque gli studi sui grandi numeri e non ci si può ancora esprimere in modo definitivo. Però noi non abbiamo visto effetti collaterali».
I progetti congiunti
Sono numerosi i progetti congiunti avviati dall’azienda ospedaliera: lo studio sull’idrossiclorochina e azitromicina sul quale si stanno raccogliendo evidenze (referente è Guido Chichino), la condivisione dei dati per raccogliere le caratteristiche cliniche, epidemiologiche e di trattamento e conoscere meglio i meccanismi della malattia (referenti sono Paolo Stobbione, responsabile di Reumatologia, e Mario Salio, direttore di Malattie dell’Apparato Respiratorio). Stesso approccio che è alla base dello studio effettuato in collaborazione con l’Università di Zurigo (referente è Fabrizio Racca, direttore del Dipartimento di Anestesia) che ha visto la raccolta dei dati di circa cento pazienti, di cui sono state raccolte le caratteristiche cliniche anche per valutare eventi cardiovascolari come tromboembolie.
Come cambia l’ospedale
Con il lento ritorno alla normalità, cambia l’organizzazione interna dell’ospedale, come spiega lo stesso Giacomo Centini: «Stiamo registrando una drastica riduzione dei casi gravi di covid19, mentre sono solo alcuni gli accessi al Pronto soccorso che presentano una sintomatologia simile, però sono pochi i tamponi positivi. All’interno della struttura sono comunque è ancora previsto un doppio percorso di accesso per i pazienti covid e non, un doppio percorso che ci accompagnerà ancora per diverso tempo». Fra i provvedimenti che hanno inciso sulla organizzazione interna e sulla logistica, vi sono quelli che puntano a evitare il più possibile la concentrazione persone in certi luoghi e la riduzione dell’utilizzo delle sale di attesa. «È una organizzazione che richiede più tempo e risorse per gestire una diversa logica di distribuzione dei pazienti. Cala un po’ l’efficienza – ammette Centini – però a vantaggio di una maggiore efficacia. In caso di una seconda ondata epidemica in autunno torneremo a una diversa organizzazione, concentrandoci sul secondo livello di prestazione, che è quello dell’azienda ospedaliera, sulla base di una esperienza che continueremo ad affinare, sul fronte della ricerca e su quello clinico».