a cura di Angelo Marenzana
Periodo burrascoso per le case editrici. La chiusura delle librerie, la difficoltà per molti editori di lavorare sulle novità librarie e il blocco delle distribuzioni stanno creando timori destinati ad esplodere con la ripresa delle attività. Il 70% degli editori sta programmando la cassa integrazione mentre sono centinaia i titoli al momento bloccati ma destinati a irrompere come un’onda sugli scaffali con le prossime apertute delle librerie. Il fenomeno potrebbe avere anche esiti negativi con i titoli più quotati pronti a soffocare la presenza di quelli minori. Fra i dati positivi è da segnalare la crescita della vendita di ebook che sta sfiorando il 25% del mercato librario, quasi il doppio di quello rilevato prima della crisi sanitaria.
Nonostante tutti, gli editori non demordono, anche se si sono dovuti scontrare con la chiusura del salone del Libro di Torino, kermesse che permetteva loro di avviare rapporti economici e culturali di grande peso, facendo crescere i propri cataloghi e collane.
Molte sono le iniziative che hanno preso nel corso della quarantena attraverso l’uso della rete. Dalle videoletture, alle recensioni, presentazioni di titoli, dagli ebook offerti gratuitamente o a costi irrisori da un editori piccoli o grandi, fino ai pdf da scaricare, e ai confronti in tema tra autori, giornalisti ed editori. Insomma, nonostante tutto, le teste pensanti non si sono fermate e per chi ama la lettura le occasioni non sono mancate.
Tra le tante iniziative mi piace ricordare quella dell’editore romano Watson, è sufficiente accedere al suo sito e cliccare su Raccontami una Storia per poter scaricare una serie di racconti gratuiti. Ce n’è per tutti i gusti. In questa occasione vi proponiamo Il Calabrone di Giovanna Repetto. Genere fantascienza.
Buona lettura.
È vero che gli ospedali non sono più quelli di una volta, ma non posso fare a meno di sudare e stringere i denti, buttato qui in sala d’attesa come il marito di una partoriente. La situazione ha del ridicolo.
Ho fatto in tempo a vederli, gli ospedali di una volta: disinfettante, camici sterili e mobili di metallo. Adesso almeno ti indorano la pillola. Luci soffuse, grandi schermi con scenari rilassanti, bei mobili, musica e profumi da bagno turco. Comunque preferirei starne alla larga il più possibile.
Insomma, non sarei qui se non mi fossi di nuovo lasciato coinvolgere da quella testa matta.
Eppure lo sapevo, ho subodorato la fregatura appena ha aperto bocca.
«Armando, devo chiederti un piacere.» Inalberava quel suo sguardo drammatico e perentorio, pieno di sottintesi eroici. «Un piacere importante, da amico.»
Non volevo cascarci.
«Già l’esordio non mi piace.»
«Non fare il cretino, è una faccenda seria. Riguarda la mia salute, cosa credevi?»
«Gianni, anche il viaggio a Cuba doveva farti tanto bene alla salute, quando mi hai costretto a stampare gli inviti alla Conferenza Internazionale.»
A quei tempi era sposato, il lavativo, e aveva messo su tutta quella messa in scena per far credere alla moglie di dover partire per un viaggio di lavoro. E io, che non ero stato mai capace di dire una bugia nemmeno al fisco, a fare da complice coi sudori freddi.
«Ancora con quella storia? Ci sono passati in mezzo due divorzi, e ancora te la ricordi.»
I divorzi erano i suoi naturalmente, perché io ho sempre evitato il matrimonio come la peste.
«La verità è che non riesco a capire come ho fatto a seguirti in tutte le tue mattane, a rischio di prendermi denunce e perfino botte.»
Gianni si è fatto una gran risata, con l’espressione più gioviale del mondo.
«È perché mi vuoi un bene dell’anima, Armando. E al cuore non si comanda!»
È vero, per lui mi butterei nel fuoco. Gli voglio bene come a un fratello, anzi di più. Con i miei fratelli non c’è nemmeno più il saluto. Un po’ anche per colpa sua, se ci penso.
«Allora, non vuoi sapere di che si tratta?» ha detto dopo un po’ che passeggiavamo in silenzio.
«No, Gianni, stavolta lasciami fuori. È una preghiera, credimi, non mi sento più l’età delle avventure.»
Non si poteva mai prevedere in quali avventure, che poi finivano per diventare disavventure, ti volesse trascinare. Poteva trattarsi di tresche amorose come di incaute manovre finanziarie, e quando si trattava di affrontare un creditore impaziente o un partner geloso, ero sempre io che timbravo il cartellino.
Gianni mi ha rivolto uno sguardo dolente, uno di quegli sguardi studiati apposta per farti sentire in colpa.
«Peccato, proprio stavolta che devo finire sotto i ferri dovrò vedermela da solo.»
Ho sentito i brividi nella schiena.
«Sotto i ferri? Ma allora stai male davvero.»
Lui ha assunto un’aria svagata, reticente.
«Lo sai, a quest’età gli acciacchi non mancano.»
Mi ha meravigliato, perché è sulla cinquantina come me, e io tutti questi acciacchi non me li sento. Poi mi è venuto in mente che davvero, sia colpa o no della sua vita sregolata, da un po’ di tempo aveva cominciato a girare per accertamenti.
«Fuori il rospo, dimmela tutta. Che cos’hai?»
Ha fatto un gran sospiro. A quel punto era il padrone della scena.
«Chiedimi che cosa non ho, piuttosto. Non c’è un solo organo che dimostri di avere un futuro.»
La frase era sibillina, ma mi ha gettato nello sconforto. Finora quello scavezzacollo mi era sembrato inossidabile, uno di quelli che cadono sempre in piedi, e non sopportavo di doverlo compatire.
«Devi operarti?»
«Sì e no» ha risposto in tono vago. Sembrava che volesse farmi sospirare il finale della storia. «Diciamo che devo rifarmi nuovo.»
In sala d’attesa i minuti sono diventati ore. Ho preso solo acqua e diversi caffè, non mi va giù altro.
Un’operatrice giovane che ho visto andare e venire più volte si ferma a guardarmi con un misto di pena e curiosità. Indossa una specie di tuta da astronauta molto attillata, con eleganti fregi grigi e blu.
«Lei è il suo compagno?» domanda con un sorriso incoraggiante.
«Solo un amico» rispondo arcigno. Mi freno prima di aggiungere che Gianni non è il mio tipo. Ricordo la situazione imbarazzante in cui mi aveva messo anni fa, quando per stornare i sospetti di un marito geloso mi presentò come il suo fidanzato, e mi costrinse perfino a baciarlo sulla bocca. E aveva mangiato aglio.
Lei mi studia perplessa.
«Ah… vuol dire che lui non ha parenti?»
Questo luogo comune, che i parenti siano meglio degli amici, non ha mai riscosso la mia simpatia.
«Avrebbe un paio di mogli, se avesse saputo tenersele.»
«Capisco» dice lei, ma in realtà vuol significare che non ha tempo da dedicare a storie complicate. Meglio così, perché l’ansia non mi predispone alla chiacchiera.
Quando fa per andarsene però scatta un pentimento tardivo e cerco di trattenerla.
«Come va l’intervento? È normale che ci voglia così tanto, oppure…»
Lei sorride con un filo di ironia. Ha colto il mio cambiamento di tono.
«È la prima volta, vero, che le capita di fare l’affidatario?»
«Veramente…» quasi balbetto, incespicando nella mia inadeguatezza «non sapevo nemmeno che esistesse questo ruolo, fino a poco tempo fa.»
Non so se interpretare la sua espressione come pena o meraviglia. Ora mi sembra un po’ meno giovane di come si presentava al primo sguardo, forse è la stanchezza che le appesantisce gli occhi.
«Andrà tutto bene.»
Tenta di rassicurarmi, ma io diffido: rassicurare non costa niente, finché i giochi non sono fatti.
Mi hanno fatto riempire un questionario, qualche giorno fa. Ho dovuto visionare un elenco interminabile di clausole che scorrevano su un monitor, per poi apporre la mia firma elettronica. Le ho fatte passare in fretta senza nemmeno guardarle, nonostante le raccomandazioni dell’operatore che mi invitava a rallentare, a leggere con calma.
Ero sicuro che se avessi approfondito la questione mi sarei bloccato. E poi? Discussioni interminabili con Gianni, forse crisi di coscienza, dubbi e rimorsi. No. Più sentivo squillare in me il solito campanello d’allarme, più acceleravo le operazioni per venirne fuori in fretta. Venirne fuori… dopo. Per ora ci sono dentro fino al collo, a friggere su questa graticola.
«Il più è fatto» assicura la donna in divisa.
Non capisco se è un medico, oppure una di quelle nuove figure sanitarie che nascono come funghi. Il progresso avanza in fretta. Anche questo tipo di interventi, che sembravano pure ipotesi di fantasia, sono entrati in uso prima che facessi in tempo ad accorgermene.
«Sta bene?» domando. «Si è svegliato?»
Le scappa un mezzo sorriso di compatimento. Forse perché mi trema la voce, o perché non ho usato i termini giusti.
«Quando posso vederlo?» aggiungo cercando di esibire un piglio sicuro.
«Stiamo stabilizzando.»
Sorride soavemente, con l’aria di voler dire: è il massimo che tu possa capire, accontentati così.
Rispondo con un cenno, e nascondo l’imbarazzo voltandole le spalle per tornare un’altra volta al distributore di caffè.
Qualunque cosa succeda, mi dico, Gianni se l’è voluta. Ora si tratta solo di mantenere la calma e aspettare. Quando sarà ora mi chiameranno.
Rinuncio al caffè e mi siedo con lo sguardo alla parete su cui scorre l’ennesimo documentario in 3D.
Sono quasi appisolato quando mi chiamano davvero. Cerco di recuperare in fretta una parvenza di contegno. Sono un affidatario, qualunque cosa voglia realmente significare, e devo ispirare fiducia.
Un piede dietro l’altro, riesco a seguire l’operatrice fin dentro una stanzetta in cui è radunata l’équipe. Qualcosa Gianni mi ha spiegato, ma fra la sua reticenza e la mia riluttanza, non sono sicuro di quello che devo aspettarmi.
La primaria chirurga sorride. È alta e bionda, e non escludo che Gianni abbia fatto il beccamorto anche con lei prima di cadere in catalessi. È apparentemente soddisfatta.
«È andato tutto bene.»
Avverto un tremolio al centro del petto.
«Il… il corpo nuovo…»
«Lo stiamo tenendo sotto osservazione. Ci vorranno ventiquattr’ore per essere sicuri.»
Faccio scorrere lo sguardo dall’uno all’altro. Sono in cinque, e sembrano tranquilli.
«E se poi non…»
«Non c’è ragione di essere pessimisti» spiega un piccoletto tarchiato, dalle mani grassocce.
«Siamo stanchi,» sbotta la chirurga «non vorrà che rifacciamo tutto daccapo!»
Risata generale. Non so se offendermi o allarmarmi. Il piccoletto mi viene in soccorso.
«Dia ascolto alla biologa» dice indicando una donna matura, dalle profonde occhiaie.
Automaticamente lei prende la parola.
«Abbiamo clonato tutti gli organi più importanti dalle cellule originali del paziente. Abbiamo ridotto al minimo le protesi, scegliendo le più affidabili sul mercato.»
Continuo a stare sulle spine, poi decido di togliermi il dubbio più grosso.
«Il… lui… il suo cervello…»
Interviene la stessa operatrice che mi aveva rassicurato – si fa per dire – in sala d’aspetto. Stavolta fa un sorriso esagerato, che agghiaccia il sangue.
«Lei sa già come funziona, vero? Deve saperlo, visto che si è proposto come affidatario.»
Sudo freddo. Sì, Gianni mi ha spiegato l’essenziale, ma non so nemmeno se ho capito bene.
«Anche il cervello è nuovo,» spiega la biologa « sviluppato da cellule naturali. È assolutamente vergine, in attesa di download. Dopo la verifica, si capisce.»
«Non si aspetterà di vedere Frankenstein…» sghignazza l’infame barattolo dalle dita a salsiccia, prima che la collega lo azzitti con una gomitata nelle costole. Anche la primaria lo fulmina con lo sguardo.
«E… e intanto…» balbetto, con la bocca asciutta.
«La scheda di memoria è innestata su supporto biologico» continua la biologa dalle occhiaie a bisaccia «come da programma.»
«E sarà lei» aggiunge la professionista della rassicurazione «a prendersene cura nel frattempo. È una grande responsabilità, ma è chiaro che il suo amico si fida di lei.»
Chissà perché, più lei sfodera sorrisi materni e più mi pare d’esser preso in giro.
«Abbiamo fatto un lavoro da miniaturisti» ridacchia il piccolo cinico, e non posso fare a meno di guardare quei turaccioli che ha al posto delle dita. Mi auguro che sia stato in grado di maneggiare gli strumenti.
«Dov’è?» esalo con un filo di voce. So già che mi aspetta una sorpresa, e che forse non mi piacerà.
La chirurga spalanca gli occhi, chiari come il ghiaccio. Occhi da serial killer, ora che li guardo bene.
«Che cosa intende esattamente?»
Le fa eco una risata generale, come se avesse detto la più spiritosa delle battute.
Sento che sto cambiando colore, ma non so se viro al grigio o al rosso scarlatto.
«Non mi sembra che ci sia da ridere.»
«Ci deve scusare,» dice la chirurga senza ombra di pentimento «ma dopo un intervento così impegnativo abbiamo bisogno di scaricare un po’ la tensione. »
Se sapessero la mia, di tensione… Ma non si può pretendere che, abituati come sono a fare a fette la gente, brillino per sensibilità.
In questo manipolo di supereroi, che dicono di essere un’esigua rappresentanza dell’intero team di lavoro, c’è anche un tipo lungo e secco che pare avulso dal contesto. Ha un tic alla mano destra, come se battesse su dei tasti immaginari. Non oso immaginare la sua funzione.
«Se allude al vecchio corpo del suo amico» mi spiega la biologa «è in cella frigorifera al sicuro.»
«Al sicuro?»
«Per legge dobbiamo tenerlo quaranta giorni» aggiunge la primaria chirurga con lo sguardo da omicida seriale «Per il caso di eventuali contestazioni. Sa come vanno le cose a volte.»
No, non lo so e non voglio saperlo.
«Ma lui… lui?»
«Il corpo nuovo è in standby,» riprende la biologa in tono pedante «come le abbiamo già detto. Il lavoro di assemblaggio è durato diversi giorni. Le colture degli organi hanno richiesto mesi, naturalmente, ma ora la sintesi finale è perfettamente conclusa.»
Sembra che ci tenga a farmi apprezzare tutta la loro fatica.
«Gianni…» boccheggio «Il mio amico Gianni…»
Manca poco che mi sfugga un singhiozzo.
«Ora lo vedrà» esulta il barilotto sadico agitando quelle vescichette che ha al posto delle dita.
Si muovono tutti insieme per scortarmi verso una stanza appartata.
«Per qualsiasi dubbio» dice intanto la chirurga, bontà sua «può rivolgersi alla nostra facilitatrice.»
Ecco il ruolo di suor sorriso: facilitatrice. A me facilita solo una crescente antipatia.
Nella saletta tutti si dispongono a semicerchio con una cert’aria di aspettativa. Al centro c’è solo una colonnina su cui è appoggiata una minuscola scatola trasparente.
«Eccolo!» esulta il piccolo miniaturista sadico dalle dita a barile. «Che ne dice?»
Mi avvicino. Nella teca c’è un calabrone, nella sua caratteristica divisa gialla e nera, che armeggia con le zampette su una scheggia di legno.
«Che… che cosa…»
Mi mancano le parole, la gola si asciuga del tutto.
«Il supporto biologico» sussurra la biologa.
Sento la mano della facilitatrice che si appoggia sulla mia spalla.
«È in perfetta salute» sussurra come un aspide. «Può stare tranquillo.»
Tento di deglutire, anche se non ho più nemmeno una goccia di saliva, e la lingua è incollata al palato.
«Solo per ventiquattr’ore» spiega la primaria assassina dagli occhi glaciali. «Poi, quando saremo sicuri che il corpo è pronto…»
«Ma è un insetto!» grido infine, e tutto l’orrore di quelle parole mi crolla addosso.
Ridacchiano, finché la biologa con le borse da viaggio sotto gli occhi non mi elargisce la sua perla di scienza.
«È un supporto con una compatibilità molto alta.»
Mi guardo attorno, passo in rassegna quelle facce da museo delle cere, quei ceffi alieni che smorzano ogni barlume di speranza.
«Lui è lì dentro?!»
«Incredibile, vero?» gongola l’osceno piccolo artista da grand guignol.
Devo avere un’espressione stralunata, perché la facilitatrice mi massaggia con insistenza il braccio.
«Fra poco potrà comunicare con lui, e accertarsi che stia bene.»
Il calabrone sembra intento a esplorare quel bitorzolo di legno che arreda la sua scatola, indifferente a tutto il resto. Mi viene il sospetto che questa gente mi voglia abbindolare.
Ma ecco il colpo di scena. Lo spilungone asociale con il tic alla mano si rianima, riprende colorito, tira fuori da non so dove una striscia di cerotto e mi rivolge un sinistro sorriso.
«Si accomodi qui» dice indicando l’unica sedia. «Ora le applicherò il terminale.»
«Terminale?» La parola ha un brutto suono.
«Con questo potrà ascoltare la voce del suo amico e parlare con lui.»
«Ma… scherza? Lui come fa a…»
L’altro, il piccolo dottor mabuse dall’occhio porcino, non sta nella pelle.
«Anche il signor Giovanni Battista ha un terminale come questo. Eh eh… più piccolo naturalmente. Eh eh… un lavoro da miniaturisti. Grafene… spessore molecolare…»
Il fonico alienato intanto mi passa le dita sul viso sfiorando la tempia, la base dell’orecchio, il collo sotto l’articolazione della mandibola. Sembra che cerchi il punto dove affondare un’arma.
«Ma le sue orecchie…» obietto.
«No, no,» precisa il marconista folle «è tutto collegato direttamente alla scheda.»
Il neuronanochirurgo – questo ho capito essere il ruolo dell’infame barattolo – ridacchia.
«Eh eh… chiamiamola scheda. In realtà il suo amico si trova in simbiosi sinaptica con il suo supporto biologico.»
Ne capisco sempre meno.
«È un insetto» mormoro di nuovo.
Il mio amico Gianni è un insetto. Quella parola mi pare insieme una bestemmia e una condanna. Avverto il formarsi di una lacrima all’angolo dell’occhio.
«Suvvia, si faccia animo!» mi esorta la facilitatrice. La pagano pure, per esibirsi in queste esternazioni.
La chirurga scuote la testa da bionda aliena killer, con aria di lieve disgusto.
«Non si informano mai abbastanza. Questi affidatari… Vi fate avanti con tanta faciloneria, poi…»
Mi sento punto sul vivo.
«E allora perché non lo fanno dei professionisti? Perché non avete fatto tutto da soli, senza farmelo vedere in questo stato?»
Lei fa spallucce.
«Dipendesse da me…»
Il fonico alienato intanto ha trovato il punto e mi strofina sotto l’orecchio con una pezza imbevuta di qualcosa. La facilitatrice si prodiga a spiegare.
«Non è possibile, signor Armando. È necessario che qualcuno di famiglia si prenda la responsabilità della custodia. Per legge.»
Per un momento la rabbia supera l’angoscia.
«Per dare la colpa a me se qualcosa va storto?»
«Si tratta solo di ventiquattr’ore» taglia corto la biologa «ed è tutto sotto controllo. Può portarselo comodamente a casa.»
«Le chiedo di stare un attimo fermo» mi prega lo psicotico tecnico del suono.
«Ma lui lo sa?» Di nuovo l’emozione prende il sopravvento. «Lo sa di essere lì dentro?»
«È tutto concordato con il paziente» afferma secca la chirurga.
Il fonico riesce finalmente ad applicarmi quella specie di cerotto, e armeggia con un piccolo telecomando.
«Ecco, ora può sentirlo. Provi.»
In effetti c’è una vibrazione che mi solletica l’orecchio. Riconosco la voce di Gianni.
«Ehi, c’è qualcuno? Qualcuno mi ascolta? È un’ora che chiamo.»
«Gianni»
«Finalmente. Mi senti? Armando! Non riesco ancora a metterti a fuoco. Devi essere una di quelle cose grosse che mi si muovono intorno.»
Alzo gli occhi sul tecnico.
«Non ha la voce da insetto» dico con estrema sorpresa, sembra proprio lui.
Gli altri sghignazzano, il fonico ha una smorfia sarcastica.
«Ma cosa dice! Le risulta che i telefoni abbiano la voce da telefono e i televisori la voce da televisore?»
Non lo facevo così spiritoso.
«Gli impulsi arrivano direttamente dalla scheda» spiega il neuronanochirurgo fra un risolino e l’altro «e riproducono la sua voce come qualsiasi apparecchio.»
Riporto l’attenzione sulla teca in cui è imprigionato il mio sventurato amico.
«Gianni, come stai? Cosa ti hanno fatto?»
«Non fare il patetico. Piuttosto fammi uscire di qui. Ho le ali, è un peccato non approfittarne.»
Mi sembra tutto assurdo, ma cerco di controllarmi. Alzo lo sguardo sui presenti.
«Vuole uscire» dico. «Credo che abbia voglia di volare.»
Qualcuno ridacchia, la chirurga resta seria.
«Non ci pensi nemmeno.»
«È bene che stia al sicuro lì dentro» conferma la biologa, che intanto mi consegna un barattolo. «Può alimentarlo con questo. È un composto di nettare e miele, con aggiunta di proteine animali. Deve solo introdurne un po’ nell’abitacolo attraverso quel forellino, usando l’apposita cannuccia. Basta qualche goccia ogni tanto.»
«Ogni quanto?»
«Ogni volta che ha appetito!» ridacchia il neuronanochirurgo. Mi domando cos’abbia sempre da ridere.
La facilitatrice mi tocca una spalla.
«Lei ha un compio importante. Deve tenerlo desto, stimolarlo il più possibile a esercitare la memoria.»
«Anzi, non sarebbe meglio tenerlo sotto anestesia? Farlo dormire?»
Mi risponde un coro di esclamazioni scandalizzate. Mi dicono che sarebbe pericolosissimo.
«È proprio quello che si cerca di evitare» mi spiega infine la primaria dall’alto del suo ruolo. «Se la scheda di memoria va in standby rischia di perdere dati, o di spegnersi del tutto. Per questo lo affidiamo a una persona responsabile.»
«Ehi, mi senti? Armando, ci sei?»
Di nuovo Gianni. Mi sembra di stare in due mondi diversi. Lo rassicuro, anche se la sua voce sembra più stizzita che preoccupata.
Guardo attentamente il calabrone che zampetta arrampicato sulla scheggia di legno facendo vibrare leggermente le ali.
«Ma come fa a muoversi? Voglio dire… l’insetto è vivo?»
Scoppiano a ridere, ma con moderazione. La biologa scuote la testa.
«Che senso avrebbe un supporto biologico se non fosse vivente?»
Il neurochirurgo agita in aria le dita grassocce.
«È una simbiosi sinaptica. La mente del suo amico è collegata agli organi di senso del portatore, e in parte può anche guidarne i movimenti.» Mi strizza l’occhio. «Ha mai sentito parlare delle formiche zombie?»
La biologa gli sferra un’altra gomitata nelle costole.
«È tutto a posto» mi assicura la facilitatrice con quella soavità che mette i brividi. «Ora lei se lo porta a casa, e fra ventiquattro ore ci rivediamo qui per il download nel cervello del corpo nuovo.»
Ed eccomi a casa mia. Ho messo la teca sul tavolo della cucina, e ho subito somministrato qualche goccia di alimento al calabrone. Cioè a Gianni. Mi hanno spiegato che lì dentro gli arriva aria a sufficienza e che l’ambiente è climatizzato in modo ottimale. Dunque non devo preoccuparmi. Non dovrei, cioè, ma non riesco a non essere nervoso.
«Armando! Ehi, Armando… mi senti o no?»
La voce mi arriva dal terminale appiccicato sotto l’orecchio. Mi affretto a rassicurarlo.
«Va tutto bene, Gianni. Sta’ tranquillo, va tutto bene.»
«Ma che bene… Vuoi tenermi qui tutto il giorno?»
«Lì sei protetto. Cosa dovrei fare?»
«Intanto dammi un goccio di grappa. Infilalo in quel pertugio dove hai messo la sbobba.»
«Ma sei matto?»
«Non fare il babbeo, ne ho bisogno.»
Ecco il solito Gianni. Ad accontentarlo non ci penso nemmeno. Mi vengono i brividi a pensare agli effetti dell’alcool su quel corpicino. Vedo che intanto si lustra le zampette.
«Come ti senti, Gianni?»
«Adesso ti vedo bene. Sono riuscito a metterti a fuoco. Non hai ida di com’è il mondo visto da qui. Arriva ‘sta grappa, o devo andare a ciucciarla dalla bottiglia?»
«Smettila, Gianni. Cerca di star buono per qualche ora, poi con il tuo corpo nuovo farai quello che vuoi.»
Vedo le ali vibrare, avverto un rumore di fondo e non capisco più se è lui che impreca o l’insetto che ronza. Mi sembra che la testolina del calabrone mi stia guardando storto, ma è suggestione pura. Mi sento diviso fra la rabbia e la pena.
«Gianni, questa è l’ultima che mi combini, lo giuro.»
Mi viene in mente quella volta che voleva convincermi a fare un matrimonio di comodo con la ballerina cubana per farle avere la cittadinanza. Una volta tanto non c’ero cascato.
«Armando, perché non mi apri? Sono allo stretto qua dentro.»
«Non ci provare. Io sto agli ordini dei medici. Alla lettera.»
«Cosa vuoi che ne sappiano i medici delle necessità di un calabrone? Se soffoco mi avrai sulla coscienza.»
E avanti così. Lui dice e io lo lascio dire. Lui scalpita e io faccio finta di niente. Il tempo non passa. Quasi provo nostalgia per quella congrega di mostri dell’ospedale.
Accendo il computer, tanto per passare il tempo, e vado a documentarmi sui calabroni e gli imenotteri in genere. Tanto vale che ne sappia qualcosa.
Sembra che Gianni si sia calmato, e anch’io mi rilasso. Navigo qua e là per la rete, poi ripiego su un solitario. Gioco svogliatamente, finché non mi invade una certa sonnolenza. Ho le mie ragioni visto lo stress che ho dovuto subire. La vista mi si annebbia, le immagini si confondono.
Mi sveglia un grido di Gianni. Accidenti, mi sono addormentato. Non doveva succedere.
«Ragno! Ragno!»
Che cosa grida, il balordo? Ragno? Spalanco gli occhi, ripiombo nella realtà. Gianni è un insetto, il ragno è un predatore di insetti. Scatto in piedi.
«Dove?!» Ho la gola strozzata.
«Qui!» sbraita Gianni. «È qui dentro!»
Brancolo, raggiungo quasi a tentoni la teca, nella stanza in penombra. È già sera. Mi tremano le mani, afferro quel cubo trasparente. Come può essere entrato il bastardo? Gianni continua a urlare, non riesco a vedere il ragno ma intanto armeggio per aprire la dannata scatola. Ecco, individuo una linguetta che scatta sotto la pressione delle dita.
Ho il batticuore, la pressione a mille. Vedo il calabrone uscire ronzando. È salvo. Un sospiro. Dalla teca rotola via il pezzetto di legno, ma del ragno non vedo traccia. La scatola resta vuota fra le mie mani.
«Dov’è il ragno?» dico, tutto scombussolato.
«Quale ragno?»
La voce di Gianni ha una venatura ironica.
«Quello che…»
Non proseguo oltre. Ci sono cascato. Gianni me l’ha fatta un’altra volta.
Mi torna in mente il suo cinismo quando aveva giocato d’astuzia, presentando la cubana alla moglie come se fosse stata la mia fidanzata, e aveva fatto credere a lei che io fossi il marito di sua moglie. Ancora mi brucia la beffa.
«Sei scemo?» sbraito. «Mi hai fatto venire l’infarto!»
Gianni volteggia in alto.
«Com’è bello volare! Ehi, è uno spasso, davvero.»
«Scendi, cretino.»
Mi cade l’occhio sulla porta finestra semiaperta. Eh, no! Con uno scatto mi precipito per chiuderla.
Troppo tardi, il calabrone è già fuori. Esco sul balcone.
«Gianni, non fare lo stupido. Gianni! Ti prego.»
Quasi piango. Il disgraziato non se ne dà per inteso.
«Che bello, qui. Come si sta bene!»
«Torna dentro, stupido. Rientra nella scatola. Vuoi morire?»
L’insetto volteggia sulla mia testa.
«Attento, Armando!» Sembra divertirsi un mondo. «Guarda che ti pungo.»
«Non ci casco. Ho studiato, i calabroni maschi non hanno il pungiglione.»
«Come no! Ti garantisco che io ce l’ho, e bello appuntito.»
«Davvero? Vuol dire che ti hanno innestato su un corpo di insetto femmina.»
«Ah ah… che ridere… allora sono un trans!»
«Non c’è niente di divertente. Torna giù.»
«Ti ricordi, Armando, quando abbiamo rimorchiato quelle due brasiliane, poi invece ci siamo accorti…»
«Sì, un’altra tua bella bravata. Non farmici pensare, vieni dentro.»
«Fossi matto! Non perdo l’occasione. Voglio andare giù, quando esce la cassiera del supermercato, quella con le zinne grandi. Ora ci vedo benissimo. È la volta buona! Mi poso proprio lì sulla scollatura. Eh, cosa daresti per essere al mio posto?»
«Sei matto, altro che zinne, quella ha due mani come due pale. Ti schiaccia prima che te ne accorgi.»
«Uh uh! Io scendo in picchiata. Pronto per la missione!»
Lo vedo volteggiare a zig-zag, poi puntare verso il basso, incurante delle mie grida. La vicina di casa si affaccia, mi vede sbracciarmi dal balcone. Mi domanda se ho bisogno d’aiuto, nemmeno le rispondo.
Rientro in casa, apro la porta e mi precipito giù per le scale. Devo fermarlo prima che faccia un guaio. Non so nemmeno come prenderlo senza fargli male. La scatola è rimasta a casa, e io rischio due volte di ruzzolare giù per gli scalini prima di ritrovarmi all’aperto.
Mi guardo intorno, e vedo solo uccelli che mi sembrano enormi. Avidi, voraci, predatori di insetti. Forse l’hanno già beccato.
«Gianni… Gianni…»
La voce mi esce flebile. Forse mi sto rivolgendo a un grumo già mezzo digerito nello stomaco di una rondine, o spiaccicato sotto il piede di un passante.
Il supermercato sotto casa ha appena chiuso le saracinesche. Mi guardo attorno. Eccola: la procace cassiera sta camminando sul marciapiede di fronte, diretta alla fermata dell’autobus. Forse sono in tempo a evitare il peggio.
Ma no, lui è già lì. Lo capisco da come lei agita le mani, si dà pacche sul petto e sulle braccia. Sta per farlo secco in un sol colpo. È questione di attimi. Attraverso di corsa.
Un impasto di sensazioni indefinibili mi avvolge nel dormiveglia, come fossi ovattato in un bozzolo. Sono malato? Sto ancora dormendo? Non riesco a capire dove sono. Eppure ho gli occhi aperti, credo. C’è luce, ma non riesco a mettere a fuoco. Come se fossi sott’acqua. È un sogno? Vorrei muovermi ma non posso. Una voce si fa strada dentro la mia testa.
«Armando…»
Chi è, chi mi chiama? Ah, sì, è quel balordo di Gianni. Cosa vuole a me?
«Armando, mi senti? Sta’ tranquillo, va tutto bene. Mi senti?»
Vorrei parlare, ma non mi esce neanche un mugolio.
«Sei salvo, Armando. È tutto a posto.»
Salvo da che? Non ricordo niente.
«Sei qui in ospedale, dove hanno operato me. Riesci a vedermi? Guarda come sono bello, tutto nuovo.»
La vista è nebulosa, ma intanto comincio a ricordare. Il calabrone, il corpo nuovo pronto per accogliere la mente di Gianni. Allora è già tutto fatto? E io dov’ero, perché non me lo ricordo?
«Sì, è tutto fatto» risponde Gianni, come se mi leggesse nel pensiero «ma tu hai avuto un incidente. Per fortuna hanno recuperato l’auricolare che avevi addosso, e con quello hanno potuto rintracciarmi.»
Che incidente?
«Ti hanno investito, mentre correvi per la strada.»
Mi rendo conto che mi basta formulare mentalmente le parole per essere ascoltato da Gianni. Che diavoleria sarebbe?
«È tutto a posto, ti sento da un auricolare» mi spiega Gianni. «Ora anche tu avrai un corpo nuovo. Saremo due supereroi, due divi del cinema, due atleti da oscar.»
Cosa stai dicendo, imbecille? Io non riesco nemmeno a muovermi.
«Si tratta di avere un po’ di pazienza. Aspetta. La facilitatrice si sta mettendo l’auricolare. Ora ti parla lei. Tranquillo.»
«Signor Armando» mi sussurra una voce femminile, melliflua «si rassicuri, è in buone mani. Conosce già la nostra équipe.»
Se la conosco? Eccome la conosco!
«Per lei ci vorrà un po’ più di tempo» prosegue contrita. «Capirà, ci ha presi alla sprovvista. Ma presto avrà un corpo nuovo come il suo amico. È stata allestita una coltura con le cellule originali dei suoi organi. Il suo corpo verrà ricostruito con il minor uso possibile di protesi, che saranno comunque di ottima qualità. I miei colleghi le spiegheranno il procedimento, ognuno nel suo campo specifico. Già che ci siamo, tanto vale ricostruire tutto nel miglior modo possibile. Non le pare? L’aspetta una nuova gioventù, signor Armando. Deve apprezzare questa opportunità.»
Sta parlando troppo. Ma io adesso dove sono? Che cosa sono?
«Vede…» la voce diventa esitante, assume un tono di circostanza «così all’improvviso, lei comprende… la sua mente ha dovuto essere salvata in fretta, prima che si deteriorasse insieme al corpo…»
Il corpo? Dov’è il mio corpo?!
«Naturalmente in cella frigorifera, caso mai un giorno lei volesse accertarsi della nostra procedura…»
Mi prende un colpo. Vorrei morire, ma è evidente che sono già morto.
Ma io… io dove sono adesso? Che cosa sono? Mi sto ricordando tutti i dettagli della faccenda di Gianni. Mi prende il panico. Che cazzo di animale sono?!
«Be’, sa… così alla sprovvista, non è stato facile trovare un supporto con una compatibilità ottimale. Ora le passo la biologa, se vuole. Poi potrà parlare con il neurochirurgo che ha fatto l’innesto. E naturalmente la primaria le darà tutte le garanzie del caso. E il tecnico della comunicazione… insomma, deve avere fiducia. Faccia conto di trascorrere un bel periodo di vacanza, un magnifico momento di riposo, dentro un piccolo nido confortevole, dove non dovrà preoccuparsi di nulla.»
In che cazzo di schifoso animale mi avete infilato, razza di cialtroni?!
«Ogni creatura vivente, la biologa glielo spiegherà, è un miracolo della natura…» La voce raggiunge toni di soavità sovrumana. «Ora mi dica: l’équipe è a sua disposizione, con chi vuole parlare per primo?»
No… no… no…
Mi sento schiacciato sotto il peso di una montagna.
Eppure, al colmo della disperazione, una mostruosa rassegnazione si impossessa di me.
Ho capito. Va bene così. Non mi passi nessuno. E soprattutto… soprattutto mi risparmi gli eufemismi.