A cura di Angelo Marenzana
Per l’appuntamento domenicale con ALlibri, Andrea Novelli e Gianpaolo Zarini (una coppia di autori consolidata nel mondo della letteratura di genere e ormai ben noti al nostro pubblico per aver dato vita all’investigatore privato Michele Astengo protgonista dei romanzi Acque Torbide, La Superba Illusione, L’essenza della colpa e Dare e Avere usciti con Fratelli Frilli Editori) hanno scelto di presentarsi con il loro ultimo romanzo Blind Spot pubblicato da INK Edizioni (nella collana MedicalNoir curata da Danilo Arona e da Edoardo Rosati).
Dalla loro Liguria i due autori si trasferiscono a Los Angeles. A causa di una grande paura la criminologa Kylie Evans conduce una vita ritirata, lontano dalla società. Il suo unico rifugio è una casa sulla spiaggia dove scrive e rafforza lo spirito col Tai Chi. Nel frattempo un’ incredibile sequenza di omicidi insanguina i dorati quartieri di Beverly Hills e Pasadena. La figlia di un petroliere, un noto milionario e un famoso stilista sono vittime di orrende mutilazioni. Incaricato delle indagini è Jack Barrett, un poco convenzionale agente dell’FBI che veste come un cowboy e si muove su una vecchia Ford Mustang del ’67. Evans deve rimettersi in gioco per le insistenze di Barrett: è necessario comprendere le analogie tra i delitti. Lo studio della vittimologia conduce al colpevole che, in base al profilo e grazie a prove schiaccianti, viene arrestato. Ma un altro delitto fa ripartire tutto da zero. Chi c’è allora dietro tutto questo orrore? E soprattutto, perché? L’occhio umano ha un punto cieco, un ingannevole “blind spot”, dove non ci sono immagini. Il punto cieco è un enigma, uno schermo nero che cristallizza l’attimo più recondito di ognuno di noi, un punto che non possiamo oltrepassare senza prima aver sconfitto la paura.
Blind spot è uno straordinario medical thriller sulla scia dei grandi maestri del genere: Robin Cook, Kathy Reichs, Tess Gerritsen e Patricia Cornwell. Una lettura che non lascia respiro.
Buona lettura con un brano di Blind Spot.
1
L’abolizione del dolore in chirurgia è una chimera.
Il bisturi è sempre sinonimo di dolore.
Una sentenza ingiallita sulle pagine di un vecchio testo che lui aveva fatto propria.
L’acqua abbracciò il sangue. Un vortice sulla ceramica di un lavandino lungo e largo. Un neon al centro del soffitto rendeva azzurro l’intero locale.
Un paio di guanti da chirurgo erano abbandonati sul bordo del lavandino. Gli occhi lucenti dell’uomo si specchiavano nelle piastrelle del muro. Il respiro sotto la larga e asettica mascherina verde era ridotto a un soffio flebile. Sollevò le mani appena lavate e si sganciò la maschera con una lentezza che frenò il tempo.
Il primo bisturi da 2 millimetri aveva fatto il suo lavoro. Egregio, come sempre. Poi era arrivato il turno del secondo, per un’incisione a profondità precalibrata a 0,3 millimetri. Un lavoro di cesello. E, mentre la mano lo guidava, lui aveva avvertito tutti quegli occhi curiosi e critici che gli stavano intorno. Bocche mute, movimenti insignificanti da farli apparire tutti quanti fermi. Impressi su una tela. Tutti a rimirare il lavoro del migliore.
Le lancette dell’orologio a parete sembravano decelerate, le ore adeguate alla sacralità dei suoi movimenti, alle linee tracciate dal “bisturi, al sacrificio del sangue. Quindi il grande sole sintetico abbagliante si era affievolito, abbandonando a gradi la paziente, eternamente addormentata.
Si lasciò sfuggire una risata che lacerò il silenzio del bagno.
L’uomo si mosse. Pochi passi indietro, la luce turchese che investì il camice sterile, quindi due graffiate alle strisce di velcro e il camice si staccò dal corpo. Subito infilato di fretta in un sacco nero per l’immondizia, insieme ai guanti e alla mascherina. Il contenitore di plastica strozzato nella mano, con l’aria che dentro lo gonfiava come un pallone aerostatico. Ma non lo chiuse. Avrebbe dovuto gettarci ancora qualcosa.
Tutto a suo tempo.
L’occhio guizzò alla sua destra, puntando un contenitore cubico a chiusura ermetica dal manico rettangolare e un tappeto magnetico per gli strumenti chirurgici. Due oggetti indispensabili. In particolare l’ultimo. Un monouso, strutturato da barre magnetiche distanziate tra loro. Flessibile come piaceva a lui, adattabile a qualsiasi base d’appoggio, con un biadesivo trasparente che gli impediva di scivolare. E, sopra, tutti i suoi microbisturi, perfettamente ripuliti. Altri passi, sino a trovarsi accanto a loro, sino a sfiorarli con il palmo, senza toccarli. Per venerarli.
Voleva godere ancora per qualche momento della loro forma perfetta, della loro lucentezza, della loro duttilità, poi li avrebbe riposti a uno a uno nella custodia protettiva in policarbonato, a sua volta racchiusa in apposita busta sterile. L’uomo, sotto il neon, alzò la testa verso l’alto. Occhi chiusi, mentre la pelle si riscaldava di quella luce azzurrognola.
I raggi filtravano quasi spenti attraverso una comoda finestra quadra. Una stanza arredata in modo pomposo, ma con poco buon gusto. Una mobilia pachidermica, cianfrusaglie provenienti da diverse parti del mondo in bella mostra dentro una teca inquietante rispolverata da qualche sala di tortura medievale, souvenir pacchiani che certamente, nell’istante dell’acquisto, avevano suggerito al venditore un abbozzo di perfida gratitudine alle spalle della donna. Statuine africane, miniature greche del Discobolo e del David. Su un’altra parete, una decina di stendardi dai colori accesi, grifoni e unicorni al centro, corone o stemmi sorretti da audaci leoni rampanti.
Un enorme caos che l’uomo non apprezzava affatto. Solo una parete lo tonificava nello spirito. Una serie di quadri. Dottori all’opera, tagliati da un barlume caravaggesco intorno a corpi stesi in una penombra ipocrita, seppur necessaria per l’epoca, ferri nelle mani scoperte, vesti scure baldanzose e messe in ridicolo da fraises in mussola irrigidite dall’appretto.
La dottrina della scienza a servizio dell’umanità. Un concetto elevato e paroloni che riempivano la bocca e pulivano la coscienza.
L’uomo alzò gli occhi sul soffitto. Il sole giallo e luminoso, che per circa quattro ore aveva avuto la funzione di lampada artificiale sulla sua paziente, adesso non era che una chiazza d’ombra ristretta a forma d’uovo. Uno sguardo d’insieme alle quattro mura che erano state la sua inconsueta sala operatoria. Quando operava, tutto quello che gli stava intorno scompariva. C’erano giusto lui e il paziente. L’uno con il bisogno dell’altro. Ancora un’occhiata ai quadri. I volti dei medici erano compiaciuti, nessun corruccio, e i loro occhi, che lo avevano assediato per tutta l’operazione, esprimevano solo lodi.
Sì, aveva lavorato bene. Come dubitarne?
Una mano poggiata alla porta d’ingresso, il piede destro sollevato, quindi il sinistro. I copriscarpe di nylon strusciarono sulla suola e andarono a far compagnia a tutto il resto nel sacco dell’immondizia.
Ora poteva andare.
L’operazione era perfettamente riuscita: la paziente era morta.
2
Come dal baco, la seta. Un flusso continuo, senza pause, in un susseguirsi rilassato e morbido. Movimenti posati, studiati, quasi apatici. Così fluidi da sembrare innaturali, così dolci da sembrare straordinari.
Un manipolo di persone schierato sulla spiaggia bianca di Santa Monica, macchiata dal verde di poche palme e punteggiata dai barili arrugginiti per la spazzatura e dalle torrette di legno chiaro dei guardaspiaggia.
Un assalto pacifico e discreto di uomini e donne dalle fattezze orientali. Una ventina almeno, in vestiti leggeri sufficientemente ampi e comodi da favorire gli atti del corpo.
Meditazione in movimento: Tai Chi.
Nel mezzo del disciplinato drappello spiccava la figura slanciata e snella di una donna. Capelli biondi, fisico agile e scattante, tanto bella quanto incongruente rispetto ai compagni di esercizio.
Indossava un paio di pantaloni bianchi e una felpa con cappuccio dello stesso colore.
Anche quella mattina, come tutte le altre, Kylie Evans era andata al punto di ritrovo sulla riva dell’oceano, proprio di fronte al California Heritage Museum. Una salutare corsetta e poi la seduta quotidiana di ginnastica del mattino, gli esercizi di Tai Chi, poco più di venti minuti. Quarantotto figure.
Il flusso.
Quella disciplina era qualcosa di simile alla corrente incessante di un fiume o alle onde del mare.
Ma non quel giorno, almeno per Kylie Evans. Un’invisibile diga nella sua mente impediva alla naturale forza di quel flusso di superare i limiti intellettivi e di trasporli in pura fisicità.
Anche se aveva tentato di allontanare ogni pensiero, non c’era riuscita. Ricercò concentrazione sul movimento dei muscoli, sul contatto mente corpo.
Niente.
Provò allora a fissarsi sulla donna che aveva davanti, un’arzilla ottantenne, capelli di saggina spartiti ai lati con equità da una mezzeria di pelle che correva in verticale sul cranio, fiera nello sguardo a mandorla e dignitosa nell’aspetto ancora vitale. Non sapeva chi fosse, anche se la vedeva da anni. Tutti i partecipanti erano nello stesso luogo, tutti i giorni, ma lei non ne conosceva uno. Era semplicemente schierata in mezzo al gruppo con un forte e sincero senso di appartenenza. Lì, le domande non erano necessarie e non c’era spazio per le risposte. Quello che aveva sempre cercato anche nella vita. Sfortunatamente però, era solo una parentesi, una sorta di camera di decompressione, di flebo cerebrale che le permetteva di affrontare la giornata, l’esistenza, in una specie di stato anestetizzante.
Sapeva che focalizzarsi su un particolare non era il modo giusto, ma doveva provarci. Forse avrebbe potuto difendere il suo angolo di purezza.
Tutto inutile. Non riusciva proprio ad ascoltarsi.
Lo squilibrio Yin-Yang, la coppia di opposti, oscuro-luminoso, non sarebbe stato superato.
Ma decise di rimanere, dissimulando la propria assenza, per non offendere la sacralità di quei momenti.
Muovere le mani come le nuvole. Movimenti naturali e circolari, gli occhi che dovevano seguirli oltre la testa.
Armonizzare corpo, mente e cuore. Ma Kylie riusciva solo a seguire la geometria. Angoli, linee di forza, tangenti: biomeccanica, mera esecuzione.
Dov’erano finiti sentimenti ed emozioni? L’interpretazione?
I suoi occhi erano ormai fermamente puntati sul Santa Monica Pier all’orizzonte, il pontile in legno più filmato d’America. Vedeva l’immobile ruota panoramica, in rotazione solo nel suo ricordo, così come le sinuose montagne russe, talmente un tutt’uno col molo da apparire come l’abbrivio di una rampa di lancio verso l’oceano.
E più in là, oltre un impalpabile velo di foschia, le Malibù Hills, incombenti sullo sfondo, con tutto il loro fardello di divi e starlet ancora addormentati nelle loro lenzuola di raso.
sarebbe dovuta andare via, lasciare il gruppo che stava contaminando con la sua tensione.
Un leggero affondo con il piede destro, dolci torsioni ai lati, testa sempre eretta e finalmente la figura di chiusura, inspirazione lenta e profonda, con espirazione prolungata. Le mani abbassate.
Il “rompete le righe” fu letteralmente una liberazione. Una sensazione di sollievo che poteva rimandare a più tardi la disamina di ciò che era successo.
Kylie Evans, laureata in Psicologia e Antropologia ad Harvard, non era benevola con il prossimo, ma prima di tutto non lo era con se stessa. Ma, per una volta, voleva soprassedere su un’introspezione delle cause che l’avevano portata a perdere la concentrazione.
Il ritorno a casa con una leggera e corroborante corsa le sciolse i muscoli contratti da una ginnastica svolta con sforzo.
Prese verso sud, verso Marina del Rey, direzione Venice.
Ora poteva dischiudere le porte alla mente che vanamente aveva cercato di segregare nel rito orientale del mattino. Era libera di lasciare che la ragione puntasse diritta all’obiettivo.
Nel pomeriggio avrebbe visto il frutto del suo lavoro venire alla luce.
I pensieri accorciarono la strada verso casa. Quasi si stupì quando si trovò davanti alla dimora da sogno bassa e larga sulla Seaview che dava direttamente sull’oceano. Quello che più si notava, venendo dalla spiaggia, era la splendida veranda, bianca come tutto il resto, composta da telai di vetro che scorrevano su guide e all’occorrenza potevano sparire.
L’edificio era fatto di volumi puntuti, sovrapposti dall’architetto che lo aveva ideato. Era una delle case più belle di Santa Monica e valeva una fortuna. Ma a Kylie era praticamente caduta dal cielo. Ricevuta in eredità da una zia quando ancora faceva psicoterapia. Un dono magnifico, ma anche gravoso. A stento Kylie riusciva a mantenerla.
Contava sull’uscita del suo libro Il linguaggio della follia per poter disporre di sufficienti risorse finanziarie per ristrutturarne almeno una parte.
Due anni di preparazione, di studi, di ricerca bibliografica, giornate intere trascorse nelle biblioteche di mezzo mondo, ma alla fine aveva dato corpo a tutto. La presentazione del libro era prevista nell’ambito di un seminario sulla psicologia forense presso la biblioteca pubblica, alla presenza di alcune autorità cittadine e di un’insigne rappresentanza del mondo scientifico, con addirittura l’intervento di una troupe della NBC. Era riuscita a concordare un’intervista di tre minuti e mezzo.
Una registrazione senza la giornalista presente e che sarebbe stata montata successivamente e sarebbe andata in onda sul circuito nazionale nelle news delle 17 e ripetuta dopo il notiziario di prima sera, in coda allo show psicomediale del dottor Phil. Una cassa di risonanza certamente non di alto profilo scientifico, ma comunque importante per far conoscere il suo studio in giro per gli States.
Il più orgoglioso dell’evento sarebbe stato Norman, il padre di Kylie, se fosse stato ancora vivo. Era stato docente di Storia greca all’Università di Berkeley. Da lui, Kylie aveva preso l’amore per la letteratura e, in genere, per la divulgazione del sapere. Era stato un uomo estremamente riflessivo e posato, mai una parola più del dovuto, mai un sentimento che non fosse stato prima sdoganato da equilibrio e autocontrollo. Stravedeva per Kylie e lei lo sapeva. Gli era stato solo difficile dimostrarlo. Le mancava davvero molto…
Pensò a sua madre. Lei avrebbe preso la cosa con più distacco, forse perché di arte e notorietà era vissuta. Infatti si era sempre dedicata alla sua passione, di cui aveva fatto un lavoro: la pittura. Aveva iniziato nel pieno degli anni Sessanta con temi New Dada, poi divenuti Pop Art, alla Jim Dine, con caratteristiche decisamente demistificatorie, ironiche. Era stata apprezzata da una stretta cerchia di esperti, anche se non era mai riuscita a sfondare. Poi, pur non avendo abbandonato del tutto colori e tele, aveva preferito una galleria d’arte a Beverly Hills, conciliando arte e denaro. Era riuscita a mantenere, in ogni caso, una certa autonomia dal puro commercio sponsorizzando giovani e promettenti artisti, in una sorta di mecenatismo moderno con un occhio al ritorno economico e pubblicitario. Sicuramente Kylie dalla madre aveva mutuato l’estro di cogliere similitudini dalle cose più strane, le simmetrie dalle situazioni meno chiare, i tasselli della vita quotidiana incastonati in puzzle ben più complessi. Purtroppo, sua madre non avrebbe mai potuto comprendere l’importanza di quel momento. Non ne era più in grado.
Kylie Evans ebbe appena il tempo di varcare la soglia che fu subito assalita da Achille, un esemplare di boxer bianco che la salutò a modo suo, leccandola con trasporto. Non poteva portarlo con sé come avrebbe voluto perché, giocherellone com’era, avrebbe disturbato il gruppo del Tai Chi. Per farsi perdonare, Kylie andò subito in cucina a preparargli in anticipo il pasto.
Lo osservò tuffare il muso rincagnato nella ciotola, le zampe ben salde sul pavimento, e ancora una volta si trovò a pensare quanto il nome del suo cane fosse tanto fuori posto.
Achille.
Era stato suo padre a darglielo, un omaggio al valoroso guerriero del poema omerico dell’Iliade. Lei non aveva obiettato, ma più osservava il suo cucciolone e meno lo riconosceva in quel nome.
All’ardore e alla forza, il boxer preferiva coccole e un buon posto all’ombra nelle ore più calde; evitava le zuffe, cambiando aria quando le cose si mettevano male. No, quel nome non faceva per lui. Per questo lei lo chiamava solo Achi. Più semplice, meno impegnativo. Ma quando il ricordo del genitore si faceva più intenso, irrinunciabile, allora si sforzava di chiamarlo con il nome per intero. Un’ulteriore ginnastica della mente e un atto doveroso verso la persona cui finora aveva voluto più bene nella vita.
«Storpiare un nome greco? Mai!», avrebbe detto Norman Evans.
La voracità con cui Achi stava divorando i suoi bocconcini mise anche a Kylie un certo appetito. Preparò la colazione: yogurt magro, qualche fetta biscottata con un tocco di marmellata di kiwi e succo di ananas. Leggera e tonificante.
Tuttavia, neanche il consumarla riuscì a distoglierla dal pensiero che già le aveva rovinato l’inizio della giornata. La presentazione del libro. L’ansia dell’attesa. L’aspettativa del risultato. Gli obiettivi puntati sull’evento.
Ma anche un’altra cosa, la più rilevante di tutte: la certezza che lei non ci sarebbe stata.
3.
Il bottone della camicetta stentò a chiudersi sopra il seno generoso. Un movimento delle spalle per sentirsi meglio addosso quel leggero pezzo di stoffa e i manichini chiusi intorno ai polsi forti. Carmen Roja si infilò velocemente la gonna portandola su con un leggero salto a piedi uniti. La matassa riccioluta dei capelli si scompose solo sulle punte, poco sotto le spalle, sollevandosi e poi ricadendo con l’andamento di un lenzuolo sbattuto. I piedi un po’ gonfi faticarono a calzare le scarpe a tacco spesso, dalla tomaia ormai consumata.
Le sette e trenta. Era incredibile come ogni mattina, guardando la sveglia, cogliesse sempre la stessa ora. Se non avesse saputo che era del tutto funzionante, avrebbe benissimo potuto sospettare che fosse rotta.
Spostò per un attimo gli occhi già truccati alla foto sul comodino. Una donna slanciata, seduta su un vagoncino degli Universal Studios, immortalata dentro una cornicetta d’argento. Accanto alla figura femminile, due bambini. I suoi bambini. Esteban e Maria. Nessuno avrebbe potuto credere che quella ragazza, fascinosa e magra, potesse essere proprio lei. Un fisico perfetto, che a distanza di soli cinque anni si era sformato. Era felice quel giorno nella Universal City, a San Fernando Valley, una serenità che traspariva dall’immagine, una tranquillità che ora, contemplandola, la faceva soffrire. Avrebbe potuto più semplicemente mettere la foto nel cassetto. Non guardarla e basta, ma non ci riusciva. Tutte le sante mattine doveva fissarla, una necessità al limite del masochismo, a cui non poteva sottrarsi. Forse per concedersi l’illusione che tutto quello che v’era stato da quel giorno al presente non fosse mai avvenuto. Si aggrappava a quel momento felice per continuare a tirare avanti dopo il divorzio, per dimenticare il fatto che Esteban e Maria sarebbero cresciuti senza un padre.
Una tazza di caffè riscaldato, una vera schifezza, le tapparelle abbassate per non ritrovarsi in un forno quando sarebbe rientrata la sera.