A cura di Angelo Marenzana
Per l’appuntamento di ALlibri di oggi ospitiamo il contributo di Edoardo Montolli, giornalista, scrittore di thriller ma soprattutto autore di diversi libri di inchiesta tra cui Il Grande Abbaglio (in tempi di pandemia e librerie chiuse lo si può trovare in ebook per Algama Edizioni oppure il volume è reperibile sui portali di vendita online anche in cartaceo). Quando, agli inizi del 2008, uscì Il grande abbaglio – controinchiesta sulla strage di Erba, il caso di Olindo Romano e Rosa Bazzi era già stato dato per chiuso da un anno, con miriadi di speciali televisivi, ospitate tv di avvocati di parti civili, criminologi ed esperti, perfino un libro e una fiction che vedevano i due coniugi nei panni dei feroci assassini. E il processo non era ancora cominciato.
Dall’inchiesta di Edoardo Montolli ne esce un ben diverso punto di vista.
Buona lettura.
In questo circo mediatico in cui i mostri dovevano solo attendere la condanna, non c’era mai stata una sola finestra per la difesa. Mai. Ma da un paio di mesi, leggendo semplicemente gli atti dell’accusa, avevamo iniziato a scrivere su Il Giornale che le cose non erano esattamente come le avevano raccontate, anche se incredibilmente nessuno sembrava essersene accorto. Era stato detto per un anno che il testimone Mario Frigerio aveva riconosciuto subito in Olindo il suo aggressore.
Ma non era vero. Era stato detto per un anno che le confessioni erano precise, concordanti e sovrapponibili, ma non era vero. Era stato detto per un anno che le indagini erano state dettagliatissime, ma non era vero. Era stato detto per un anno che la macchia di dna sulla Seat della coppia ce l’avevano portata per forza gli imputati, ma non era vero. Era stato detto per un anno che tutte le piste alternative erano state vagliate, ma non era vero nemmeno questo. Era tutto lì, nero su bianco, nei documenti dell’accusa.
Per questo avevamo deciso di scrivere un libro per smentire le miriadi di leggende che si erano narrate sulla vicenda, alcune delle quali resistono ancora oggi. Leggende nelle quali Olindo e Rosa diventavano, a seconda delle esigenze, ora strateghi diabolici in grado di compiere un massacro in una manciata di minuti, rendersi invisibili, cancellare ogni loro traccia e prendersi gioco delle intercettazioni; ora due inetti decerebrati che al momento di confessare chiedevano ai magistrati se fosse giusta la loro ricostruzione o di aggiustarla come meglio ritenessero opportuno: «Metta quello che vuole» dirà Olindo stanco di sbagliare.
Certo, nessuno di noi due si aspettava di finire nel mirino. Vero è che fin dai primi articoli pubblicati su Il Giornale c’era stato qualcuno che aveva chiesto invano al direttore Mario Giordano di farci smettere di scrivere. Ma non immaginavamo che ci saremmo trovati, con l’uscita del libro all’inizio del processo, in un’atmosfera da linciaggio. Linciaggio verso gli imputati. Linciaggio verso gli avvocati, accusati di difendere due mostri.
Linciaggio verso i consulenti (tutti pronti a mettersi a disposizione gratuitamente), fossero essi ingegneri di fama internazionale o medici legali di valore assoluto. Come Carlo Torre, l’uomo che con Giovanni Falcone voleva costituire un laboratorio di scienze criminalistiche indipendente da quelli all’interno dei corpi di polizia, e che a Como venne definito un «prestigiatore». E linciaggio, infine, verso di noi, su cui qualcuno aveva sparso velocemente la voce che fossimo nientemeno che pagati dallo spazzino e da sua moglie analfabeta, i veri artefici, con i legali, della loro ritrattazione.
E, ancora, che fossimo in cerca di visibilità: come se mettersi contro l’intera opinione pubblica italiana, tv, giornali e la tesi di cinque pm, costituisse la ricerca di notorietà e non una corsa in picchiata all’inferno. Gli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Enzo Pacia (oggi defunto e sostituito da Nico D’Ascola) venivano derisi, perfino insultati, ogni giorno rimproverati di non aver scelto il rito abbreviato per i loro assistiti. Felice Manti, che seguiva il processo per Il Giornale, finì isolato dai colleghi. Perfino quando, nelle pause delle udienze, andava a mangiare un panino in un bar.
E in tv pseudoesperti, giornalisti e parti civili negavano con forza gli atti, smentendone addirittura l’esistenza che specie alcuni di loro erano sicuramente tenuti a conoscere: un aspetto cruciale per un processo in Corte d’Assise, in cui la maggioranza dei giudici è costituita da cittadini comuni, i giudici popolari che leggono i giornali e guardano la tv. Non a caso, lo si vedrà, una delle leggende sulla coppia, inesistente agli atti, finirà perfino nella sentenza di primo grado come motivo di sospetto su di loro. Segno che i giurati non avevano guardato le carte, ma letto i giornali e guardato la televisione.
Così, mentre in tv si negava la realtà e si inventavano letteralmente fatti, in aula andava in scena un processo cui nessuno dava importanza se non per gli occhi di Olindo, la sua confidenza con Rosa e altre amenità del genere. Se la ricostruzione della strage fatta ne Il grande abbaglio era fondata sui documenti prodotti dall’accusa e non, lo si tenga a mente fin d’ora, dalla difesa, in tribunale – come racconterò – accadde così che i carabinieri smentirono i propri verbali e che quasi tutti gli orari per compiere la mattanza si dilatarono magicamente. Successe anche un altro fatto, la cui importanza mi sarebbe risultata chiara solo tempo dopo: venne rifiutata la trascrizione integrale di tutte le intercettazioni sul caso, sia quelle che riguardavano Olindo e Rosa, sia quelle di Frigerio e di altre persone.
In un crescendo di divieti, alla difesa vennero tagliati più di cinquanta testimoni e le fu di fatto impedito dalle grida del pubblico – e non solo – di terminare il controesame di Mario Frigerio. Il pm Massimo Astori si oppose spesso e parlò addirittura di «slealtà» dei legali nel modo di porre le domande. Finì con un «vergognatevi!» rivolto da Frigerio agli avvocati della coppia, un urlo che imperò sui quotidiani il giorno successivo. Si trattava dell’interrogatorio chiave per la sentenza, dato che Frigerio il 15 dicembre 2006 aveva prima riconosciuto come aggressore un uomo olivastro più alto di lui e mai visto prima. E solo dopo l’olivastro era diventato il suo opposto: ovvero il bianco, più basso e notissimo Olindo.
Tra quelle due versioni, l’uomo aveva incontrato in ospedale il 20 dicembre 2006 il comandante dei carabinieri di Erba Luciano Gallorini. Era stato lui a fargli nove volte il nome del vicino di casa. Ma in aula, inspiegabilmente, Gallorini lo negò. E quando la difesa chiese di mandare l’audio intercettato che lo smentiva, la Corte d’Assise rifiutò ancora. In compenso successe un fatto che non ha alcun precedente nella storia giudiziaria italiana: la Corte formò infatti la prova in camera di consiglio, facendo ascoltare in aula la prima registrazione, quella del 15 dicembre, riascoltata attraverso un loro dispositivo audio, che riguardava il primo interrogatorio del testimone.
Un audio che smentiva verbali, carabinieri, pm, l’avvocato di Frigerio, Manuel Gabrielli, e pure i figli di Frigerio. E ancora medici e ufficiali di polizia giudiziaria che avevano trascritto le sue parole, oltre, naturalmente, a tutti i periti che lo avevano ascoltato con le più sofisticate apparecchiature. Ma la cosa più assurda è che l’audio smentiva lo stesso Mario Frigerio: in sostanza, si sentiva il testimone dire, mentre descriveva l’aggressore olivastro: «per me è stato Olindo», frase che la difesa aveva trascritto in «stavano uscendo».
Un fatto che non era assolutamente possibile, proprio perché, ancora il 20 dicembre, Frigerio diceva a Gallorini di pensare ad «altra gente» fino a quando, parola del comandante, lui gli aveva «messo il dubbio». E non aveva senso peraltro, descrivere un uomo olivastro, mai visto prima, invitarlo a cercarlo tra gli extracomunitari di casa Castagna – Marzouk, far scrivere successivamente che era più alto di lui di dieci centimetri e allo stesso tempo riconoscere l’aggressore nel notissimo vicino di casa bianco Olindo Romano, più basso di lui di un centimetro.
Ma incredibilmente tutti presero l’audio per buono. E il processo di primo grado, dopo un vano tentativo di ricusazione, finì così, grazie a quella schiacciante e spontanea accusa, con elogi alla Corte d’Assise per la brillante scoperta e qualcuno che, in tv, brindava con tanto di champagne all’ergastolo. Solo dopo si potè apprendere che quell’audio clamoroso e totalmente inspiegabile che aveva chiuso il dibattimento, era stato amplificato con il programma per l’elaborazione del suono Cool Edit 2000, un programma che – scriveranno i giudici d’appello senza disporre accertamenti – poteva aver trasformato «senza alcuna intenzione di falsificare scientemente il risultato auditivo» la frase «è stato uscendo» in «è stato Olindo». Una differenza abissale.
Ci fu anche il tempo, prima del sipario lariano, che il pm Massimo Astori facesse dell’ironia, durante la requisitoria, sul nostro libro: «Per qualcuno sarebbe stato tutto un grande abbaglio, come se noi fossimo degli sprovveduti». Si riferiva alle dichiarazioni di Olindo fatte ascoltare a Rosa quando questa sbagliava tutte le ricostruzioni nella sua confessione, un particolare che avevamo riportato nel volume e che spiegava perché le due versioni combaciassero. Astori parlò di una «calunnia» sostenendo che gliene avevano fatte sentire solo una parte, di dichiarazioni, e che poi Rosa era andata avanti da sola a parlare. Ma esattamente come raccontavamo ne Il grande abbaglio, c’è un verbale firmato dallo stesso magistrato, in cui è scritto che alla donna furono lette tutte le dichiarazioni del marito. Questo, tuttavia, è il meno.
Dopo il primo grado
Quando ci eravamo messi a scrivere il libro, avevamo scoperto alcune cose inquietanti inerenti le indagini e ne avevamo messo a conoscenza gli avvocati della coppia. Diversi episodi sono ora noti, pure se troppi, anche tra chi informa, ancora non li conoscono.
Alcune cose, invece, con il clima giacobino dell’epoca, risultavano addirittura impossibili anche solo da discutere con chiunque, figuriamoci cosa sarebbe accaduto se le avessimo riportate in un volume. Per altre ancora, i legali ci chiesero di non scriverle perché avrebbero voluto affrontarle in aula, ma vi riuscirono solo in parte, proprio per come poi si sviluppò il processo, concluso nel peggiore dei modi. E ci fu dunque una forte battuta d’arresto sull’inchiesta che avevamo portato avanti, perché, su Il Giornale, come ebbi presto modo di sapere da Felice, le porte per spiegare i dubbi sulla vicenda si erano chiuse con la condanna all’ergastolo sancita a Como.
Fu così solo due anni più tardi che cominciai a scrivere dei pezzi mancanti del libro, quando Umberto Brindani, direttore di Oggi, letto Il grande abbaglio, mi chiese coraggiosamente di mettere insieme un servizio speciale per il settimanale. Una decisione allora assolutamente impopolare, ma che segnava il solco tra giornalismo d’inchiesta e informazione scandalistica. Approfondendo ulteriormente il materiale ottenuto dalla difesa (ma sempre inerente le indagini prodotte dall’accusa), iniziai a pubblicare una lunga serie di scoperte su Oggi, del quale darò conto in coda al libro e che costituiscono – dalle intercettazioni scomparse alla macchia di dna sull’auto della coppia – parte dell’intervento del ministero della giustizia sulla vicenda e della richiesta di nuove indagini da parte di Azouz Marzouk di questi mesi.
Solo che all’epoca, si è detto, il clima era molto diverso da quello odierno. E ancora durante il processo d’appello del 2010 sembrava che tali scoperte, alcune delle quali davvero scioccanti, costituissero particolari insignificanti di fronte alla coppia diabolica. Oggi si muoveva come una nave pirata, circondata da giustizialisti che presenziavano in tv e opinionisti e giornalisti che non sapevano nulla della vicenda, ma giudicavano e indirizzavano l’opinione pubblica.
Con alcune eccezioni, costituite da chiunque si fosse preso la briga di leggere le carte o, più modestamente, anche solo Il grande abbaglio. Come Alessandro Gaeta, del Tg1 o Francesco Vitale del Tg2, inviati a seguire il processo da Roma. O Giulio Cainarca di Radio Padania, che ha dedicato innumerevoli trasmissioni alla vicenda. E ancora Stefania Panza e Paola D’Amico, autrici di un successivo libro sulla strage: chiunque leggesse impallidiva e cambiava radicalmente opinione.
Ma erano troppo pochi per far breccia in un muro in cui si continuava a negare l’evidenza. Finché, dopo aver dato alle stampe nel 2010 un nuovo libro in allegato a Oggi, ossia L’enigma di Erba, alla vigilia della Cassazione del 2011 Brindani mi chiese di pubblicare uno speciale sul sito del settimanale, tuttora online, in cui postare non solo le ultime scoperte fatte, ma anche i documenti originali dell’indagine giudiziaria.
Un documento indispensabile per capire come realmente si svolsero i fatti: lì sopra ognuno può confrontare di persona gli atti con quanto veniva e viene detto in tv e scritto sui giornali. Chiunque può osservare il video dello pseudoesperto del talk show e leggere invece cosa dicono i documenti. Chiunque può guardare cosa sostenevano taluni giornalisti e l’esatto opposto che c’è nelle carte, o ancora notare con attenzione cosa raccontavano in tv persone che in aula, come da verbali ufficiali online, avevano testimoniato l’esatto contrario: un dettaglio, lo si ricordi, cruciale quando il processo è fatto in una Corte d’Assise.
Il tentativo di informare il pubblico mettendo almeno tutto in Rete arrivava in seguito ad un ultimo fatto mediatico per me inspiegabile avvenuto agli inizi del 2011, prima dell’ultimo grado di giudizio sulla coppia. La trasmissione Chi l’ha visto? aveva deciso di interessarsi della strage di Erba. Giulio Cainarca aveva infatti parlato con Gianloreto Carbone, inviato del programma più considerato sulla cronaca nera. A lui aveva girato atti, documenti e buona parte dell’inchiesta giudiziaria. E il programma si era interessato molto.
Pare avessero messo in cantiere diverse cose. Mi contattarono per parlare delle scoperte che avevo fatto negli anni e registrarono tutto a Milano. Mandarono in tv un filmato in cui erano finalmente spiegati fatti e non leggende. Raccontarono inizialmente i dubbi di una mattanza impossibile. Mi chiesi fin dove si sarebbero spinti. Invece, improvvisamente, si fermarono. L’intervista con quanto avevo narrato sulle indagini e che ho ripetuto otto anni più tardi a Le Iene non andò mai in onda. Pensai che avessero deciso semplicemente di non occuparsene più. Succede. Presto giunse la Cassazione e i coniugi finirono condannati definitivamente.
Qualche settimana più tardi, mi capitò di intervistare Federica Sciarelli per un numero speciale di Oggi su tutt’altro argomento. E fu lei a confidarmi che dopo aver trasmesso le prime ricostruzioni con i dubbi sulla strage avevano subito non precisate pressioni. A dirla tutta, non vi diedi peso, perché non lo ritenevo possibile. Ma poco dopo, il 27 giugno 2011, Porta a Porta estate tornò ad occuparsi, tra i gialli di cronaca, proprio di Olindo e Rosa. Bruno Vespa fece partire un servizio su Erba: un servizio dove i fatti erano narrati con estrema precisione. Al ritorno in studio ospite era Pino Rinaldi, tra gli autori storici e più validi di Chi l’ha visto?.
E Rinaldi sembrò sospirare. Questa è la trascrizione del suo intervento, che potete consultare nel video della puntata: «Io devo dirti che spero che per voi non ci sarà la stessa azione che c’è stata nei confronti di Chi l’ha visto? quando abbiamo raccontato, l’autore era Gianloreto Carbone, un pezzo, un servizio… abbiamo detto le stesse cose che sono state dette a mio avviso in maniera precisa in questo servizio appena andato in onda… Abbiamo addirittura avuto una tirata d’orecchie da parte della Commissione di Vigilanza».
«E perché?» chiese il conduttore stupito.
«Eh… perché?!?…»
«È una ricostruzione pura e semplice…».
«…Noi abbiamo fatto la stessa cosa. Abbiamo messo in fila tutto quanto prima del servizio. Abbiamo anche informato e invitato i vari attori di tutta questa storia. Avendo un no, noi siamo andati avanti. Noi abbiamo messo in fila, esattamente come ha fatto il regista tutte le cose così come sono andate in onda adesso. E rivedendole ancora una volta io dico è una storia questa drammatica, abbiamo un testimone oculare, però ci sono tanti perché. Il mistero rimane. Vorrei aggiungere soltanto un particolare, che il lavoro del Ris è stato un lavoro dettagliato. Hanno analizzato tutti i campioni di sangue. È stato trovato un campione di sangue che non è delle vittime, nè di Olindo, nè di Rosa. E di chi è quel sangue?… Prima è stato chiesto se la Cassazione avrebbe dovuto dare un’altra risposta. Forse non in quel grado, ma nel primo grado e nel secondo ci dovevano essere delle, diciamo, letture e degli approfondimenti più forti».
La sostanziale differenza, ovviamente, è che la ricostruzione meticolosa che aveva iniziato a mostrare Chi l’ha visto? era stata fatta prima della sentenza definitiva. Per anni ho continuato a chiedermi chi e perché avesse deciso di fare quell’«azione», per usare le parole di Rinaldi, nei confronti di Chi l’ha visto?. Ma col tempo, con il carcere a vita ormai sancito per la coppia, ho cominciato a stupirmi anche di quanti iniziassero invece ad interessarsi finalmente alla vicenda. Di fatto, chiunque abbia davvero letto le carte, non ha potuto che sollevare dubbi. È successo con Vittorio Feltri su Libero o nel 2014 con un servizio di due pagine su Repubblica di Carlo Verdelli, l’attuale direttore del quotidiano fondato da Scalfari.
Più di recente c’è stato il documentario Tutta la verità di Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli.
Quando abbiamo incontrato Antonino Monteleone e Marco Occhipinti de Le Iene e abbiamo raccontato quanto scoperto e pubblicato per la gran parte fino al 2011 – ovvero, per intenderci, nel periodo in cui tutti i protagonisti di questo processo erano ancora vivi e potevano rispondere – abbiamo visto un interesse ad approfondire ed ampliare l’inchiesta in modo serio e documentato, inchiesta che sta proseguendo tuttora, in una cassa di risonanza che finalmente sta contribuendo a far aprire gli occhi all’opinione pubblica.
La disinformazione
In questi mesi tante persone ci hanno chiesto di rimettere fuori Il grande abbaglio, dato che l’editore è fallito e non è più disponibile in libreria. E abbiamo infine deciso di farlo, con un aggiornamento necessario, per le reazioni che la stampa ufficiale ha avuto sul lavoro de Le Iene, come se si tentasse di ricostruire il clima di undici anni fa. Con attacchi infondati o, ancora una volta, con ridicole notizie diffuse per oscurarne il lavoro, come la voce falsa sull’amante di Rosa Bazzi.
Si sono aggiunti improbabili colpevolisti dell’ultima ora, che, oltre ad ignorare i documenti, si sono inventati nuovi fatti. Pseudocriminologi e giornalisti che dicono che la colpevolezza è «tutta negli atti».
Atti naturalmente che costoro non hanno mai consultato nonostante si stiano occupando della vita di due persone all’ergastolo e di altre quattro che sono morte. Tanto che invitano a leggere la sentenza di Cassazione, guardandosi bene dal farlo. Altrimenti avrebbero scoperto che proprio la Cassazione ha scritto che sul caso si addensano numerosi «dubbi» e «aporie», ovvero domande senza risposta: frasi sconvolgenti in una condanna all’ergastolo, per uno Stato che ha inserito nel proprio ordinamento la colpevolezza solo quando questa va oltre ogni ragionevole dubbio. E l’aporia non è un ragionevole dubbio, è appunto una domanda che non conosce risposta, insolubile.
Queste persone, i neocolpevolisti dei talk show, parlano di «spettacolarizzazione» del tentativo di revisione sulla strage da parte degli avvocati della coppia, dimenticando o forse ignorando, che al circo mediatico dei processi la difesa fu l’unica a non partecipare, mentre andava in onda una fiction prima ancora di entrare in aula, unica sede in cui lottò un pool difensivo che non ha mai nemmeno avuto il gratuito patrocinio e che da dodici anni paga di tasca propria ogni spesa giudiziaria della coppia.
Sostengono, questi giustizialisti da salotto, che siccome Rosa è mancina, tale dettaglio costituisce un clamoroso indizio di responsabilità, poichè secondo l’autopsia il piccolo Youssef fu sgozzato da un mancino. Per quanto sia grottesco considerare il fatto di essere mancini un indizio, tali persone non sanno ovviamente che nella relazione autoptica preliminare l’autore veniva considerato destrimane. E che si è mancinizzato successivamente.
Insistono, i soloni, sul fatto che ben 26 giudici li hanno considerati colpevoli e si chiedono smarriti come facciano 26 giudici a sbagliare. Perché non sanno, o fingono di non sapere, che per ogni errore giudiziario – e l’Italia ne è piena – hanno sbagliato un numero equivalente di giudici, se non di più, se non decine di giudici.
E il problema è che, questi colpevolisti, di professione si prendono la briga di informare la popolazione parlando a milioni di persone dal pulpito di emittenti nazionali.
La gran parte della stampa, poi, ne sa ancora poco o nulla. Chissà, forse perché già prima del primo processo aveva deciso di archiviare approfondimenti.
Ma basti pensare, a mero titolo di esempio, che ancora oggi il principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera, scrive che furono trovate «tracce di sangue femminile su alcuni indumenti dei Romano e una macchiolina di sangue maschile sul tappetino della loro auto».
Invece non c’è sangue sui vestiti della coppia, tantomeno sul tappetino dell’auto: fu trovata una macchia delle vittime unicamente sul battitacco della Seat. O almeno così sostiene l’unico carabiniere che dice di averla vista e repertata, ma che quanto al verbale stilato in proposito, come vedremo, non sa incredibilmente nient’altro: nemmeno che non era da solo a svolgere quella repertazione.
Ma al Corriere della Sera sul punto va bene tutto, dato che in un altro articolo (di autore diverso) si sostiene che il sangue fosse «sulla pedaliera e sul bordo di una portiera».
E di nuovo il quotidiano torna ad alimentare leggende metropolitane, quando scrive: «A insospettire gli inquirenti è stato anche il fatto che in quasi un mese dalla tragedia i due, intercettati, non abbiano mai commentato ciò che è accaduto pochi metri sopra le loro teste», una bufala che, come racconterò al termine del volume, non ha alcun riscontro negli atti (ci sono lunghissime intercettazioni in cui i coniugi parlano della strage e sperano che Frigerio si svegli per incastrare il colpevole) e che i soli giudici di primo grado, guardando la tv, presero per buona. O addirittura, si sostiene, sempre sul Corriere, che «la difesa… non ha mai controinterrogato Frigerio», come se quel drammatico confronto del 26 febbraio 2008, quando tutta l’aula inveì contro i difensori, non fosse mai esistito.
O infine, sullo stesso importante quotidiano, vi è scritto che Valeria Cherubini, la moglie di Frigerio, fu finita sulla soglia di casa: «Valeria prova a scappare ma Rosa, sempre secondo la ricostruzione della Procura, la insegue e la finisce quando la donna ha quasi raggiunto casa sua».
E invece questa costituisce la più grande delle aporie, le domande senza risposta: e se fosse stato come racconta il Corriere, non starei a scriverne da undici anni, perché Olindo e Rosa sarebbero a casa e non in una cella.
Ma così non è: solo inizialmente, infatti, la Procura aveva scritto che la donna era stata uccisa nella sua mansarda, inseguita dagli assassini due rampe di scale più su rispetto all’appartamento di Raffaella Castagna. Ma poi, contro ogni nostra previsione, al processo di Como e nei successivi gradi di giudizio si sostenne una cosa assolutamente impossibile in natura, che va contro qualsiasi legge della fisica.
Che la donna fosse stata uccisa in mansarda lo suggeriva la scena del crimine e lo sanciva la logica: non solo c’era un’impronta (mai identificata) su un cuscino in quella mansarda, e un’altra alla fine della terza rampa di scale (rimasta anch’essa senza proprietario). Ma la tenda della portafinestra davanti alla quale morì la donna, inginocchiata con le mani come «a protezione del capo» era piena di schizzi di sangue. Ce n’erano lì di schizzi e ce n’erano pure sulle parti in legno del soffitto: segno che, colpita di sotto, era stata finita proprio in quel punto. Peraltro c’era un buco sulla tenda, che per la difesa era stato prodotto da un taglio e dunque dal coltello dell’assassino, ma in aula fu negata ai legali una perizia e oggi quella tenda è tra i reperti distrutti a Como nonostante un espresso divieto di incenerirla da parte di due giudici.
Soprattutto, nella dinamica della strage, c’era un particolare che avrebbe dovuto acclarare senza ombra di smentita che la donna fosse stata uccisa in mansarda: sia il marito Mario Frigerio, sia il primo soccorritore Glauco Bartesaghi, fermi sul pianerottolo di Raffalla Castagna, udirono infatti distintamente Valeria Cherubini gridare la parola «aiuto» dal piano superiore. Ma il fumo impedì a Bartesaghi di salire da lei.
Il problema è che se Valeria Cherubini fosse stata uccisa in mansarda, gli assassini non potrebbero mai essere stati Olindo e Rosa: per la semplice ragione che non sarebbero mai potuti scendere per le scale dalla mansarda fino al piano terra, e camminare rasenti al muro fino alla loro porta interna alla corte, che distava una trentina di passi dal portoncino del palazzo di Raffaella. Perché lì fuori avrebbero trovato i soccorritori, già sul posto, e sarebbero stati visti.
Gli assassini, dunque, sarebbero dovuti per forza uscire da un’altra parte, fuori dalla corte piena di gente: il che escludeva radicalmente la possibilità che ad uccidere fossero stati Olindo e Rosa.
Sicché la dinamica in tribunale cambiò radicalmente. E i giudici, per condannarli, dovettero tutti sostenere che Valeria Cherubini fu colpita solo sul pianerottolo di Raffaella Castagna e che poi risalì da sola nel proprio appartamento, dove infine, dopo aver gridato «aiuto» morì. Così come, peraltro, aveva confessato la coppia.
Peccato che ciò non sia fisicamente possibile. E i giudici, per stabilirlo comunque, decisero così di ignorare completamente il referto autoptico. Ovvero: Valeria Cherubini era stata la persona più colpita di tutti. Attinta da ben 43 colpi, 8 dei quali le avevano fracassato il cranio, le era stata squarciata la gola e tagliata la lingua.
Dunque, per essere molti chiari, per condannare Olindo e Rosa, i giudici di tre gradi di giudizio stabilirono che Valeria Cherubini, con 43 colpi in corpo e la testa rotta, salì per due rampe di scale, senza perdere che 13 minuscole gocce di sangue, senza deglutire il sangue e senza respirarlo (non ne fu trovato né nello stomaco, né nei polmoni). E dunque, in totale apnea e col sangue misteriosamente rimasto in equilibrio senza sgorgare nonostante i numerosissimi colpi patiti, entrò nella mansarda.
Lì, infine, senza prendere fiato, con la gola squarciata e la lingua tagliata, gridò la parola «aiuto» prima di inginocchiarsi in un’enorme pozza ematica improvvisamente fuoriuscita tutta insieme. E morì. E allora la domanda è ovvia: com’è possibile per qualsiasi essere vivente una cosa del genere? Come si fa a credere ad una versione così? C’è davvero bisogno di una perizia per stabilire che il sangue non resta in equilibrio quando si viene colpiti, ma sgorga in abbondanza? C’è bisogno di un luminare per capire che con 43 colpi in corpo e il cranio fracassato non si salgono due rampe di scale, per di più in apnea (dato che non c’è sangue nei polmoni della vittima)? C’è bisogno di uno scienziato per comprendere che con la gola squarciata e la lingua tagliata non si può gridare «aiuto»?
Ecco, al di là delle confessioni, al di là dell’assenza di tracce di Olindo e Rosa sulla scena del crimine, del riconoscimento variato del testimone, della macchia di sangue sulla Seat che nessuno ha mai visto in aula, si deve tenere conto di questo: chiunque ritenga colpevoli Olindo e Rosa deve per forza sostenere, come hanno fatto i giudici in tre gradi di giudizio, che questa cosa irreale sia accaduta. Accettare un dogma, prendere per buono l’assurdo, che anche un ragazzo di scuola media sa non essere possibile.
Le leggende metropolitane
Non lo dico ora, lo scrivo da quando mi occupo di questa storia. E i documenti giudiziari che lo attestano li ho messi online sul sito di Oggi otto anni fa. Eppure, come si è visto sopra, la quasi totalità della stampa lo ignora. Ricorda solo l’istanza di fermo dei due. Ed è molto più attenta alle leggende metropolitane, agli occhi di Olindo. In tv si dà risalto ad altri dettagli scritti dalla Corte d’Assise di Como del tutto irrilevanti e peraltro errati: si chiedevano infatti i giudici lariani come potessero sapere i coniugi che quella sera Paola Galli fosse giunta nella corte di via Diaz con la Lancia K del marito e non con la sua Panda nera.
Bene, fermo restando che quella sera tutti i presenti giunti sul posto, compresi i Romano, seppero della Lancia K nella corte, se i giudici avessero ascoltato le intercettazioni mai trascritte di Olindo e Rosa, si sarebbero accorti che proprio quel particolare era argomento frequente di discussione della coppia con gli altri vicini di casa. Perché, per l’appunto, lo sapevano tutti. E se i giudici non ascoltano le intercettazioni e non leggono gli atti, dovrebbero farlo almeno i giornalisti che informano sul caso, specie in un processo in Corte d’Assise.
Invece, ancora oggi, si deve leggere e si deve sentire parlare di questo particolare insignificante ed errato, o della famigerata lavatrice di Rosa in funzione la notte della strage: un gran sospetto, certo. Eppure costoro sarebbero tenuti a sapere che nel rapporto del comandante Gallorini del 16 dicembre 2006, cinque giorni dopo l’eccidio, veniva già escluso che nei panni contenuti in quella lavatrice ci fosse sangue. Cinque giorni, non una settimana, non un mese. Ma tredici anni più tardi se ne parla ancora in tv come indizio clamoroso.
O ancora, si ascoltano opinionisti televisivi che discettano della macchia di sangue delle vittime sull’auto della coppia asserendo cose senza comprenderne il significato. A parte le scoperte che pubblicai su Oggi in merito al verbale di repertazione di quella macchia, e di cui si parlerà al termine del volume, si insiste col dire che quella macchia era originale e dunque pura e potevano dunque averla portata solo Olindo e Rosa. Ecco: che quella macchia fosse originale e pura è verissimo e lo attesta il professor Carlo Previderè che l’analizzò. Peccato (ma questo gli scienziati dell’informazione dei talk show non lo sanno) che il brigadiere che asserisce di aver repertato la macchia e che è anche l’unico ad averla vista sull’auto (manca la foto al buio che mostri la luminescenza del luminol) parlò invece in aula di una macchia diluita, lavata, tutt’altro che originale, tanto che con la lampada crimescope non era riuscito ad individuarla e aveva dovuto utilizzare il luminol. Dunque o era originale e pura o era diluita e lavata: non vi è alcuna possibilità di conciliazione tra le due versioni.
Quanto alle confessioni, che finalmente qui si potranno leggere, c’è ancora moltissima gente che in talune trasmissioni le definisce «dettagliatissime» e «sovrapponibili» come scrisse la Corte d’Assise di Como. Ma questo dato fu superato subito dai giudici d’appello di Milano, che dovendo giustificare i resoconti deliranti di Rosa e i 243 errori di Olindo (uno ogni trenta secondi), dovettero constatare che erano piene di «versioni non credibili» e «numerose inesattezze», ma le attribuirono all’intenzione della coppia di lasciarsi aperta una porta alla futura ritrattazione. Una ritrattazione che sarebbe giunta però dieci mesi più tardi: in mezzo, il video autoaccusatorio di Rosa al criminologo Massimo Picozzi che avrebbe convinto tutti della loro colpevolezza. Dovevano essere degli strateghi di guerra Olindo e Rosa per preventivare una furbissima ritrattazione da farsi dieci mesi dopo le confessioni e i video al criminologo, dopo aver in sostanza infilato la testa nella ghigliottina.
Ignoranti, poi, ma agili a muoversi tra le fiamme, Olindo con la sua obesità e Rosa con la sua asma immune al fumo, roba da far studiare ai medici di tutto il mondo. Ma a lei, una donna minuta di poco più di 50 kg, era possibile qualsiasi cosa: anche sollevare di forza da terra Raffaella Castagna, che ne pesava 95, di chili, ed era alta una ventina di centimetri in più (così Rosa diceva nel video di Picozzi, video ovunque considerato credibilissimo); analfabeta, Rosa, ma in grado di ingannare le tecnologie del Ris con il suo strabiliante detersivo da un euro. E dunque i due erano anche capaci di prevedere che dopo essersi addossati qualsiasi colpa pure in video, l’avrebbero scampata ritrattando moltissimo tempo dopo. Si può continuare a credere a suggestioni del genere? Fino a quando l’irrazionale potrà coprire a tal punto i fatti?
Perché la realtà è che Olindo e Rosa sono solo uno spazzino e una domestica precaria analfabeta che vissero l’ultimo mese da liberi sotto assedio della stampa e del controllo 24 ore su 24 dei carabinieri, i quali sequestravano panni e oggetti a casa loro, ne perquisivano l’auto, prendevano a entrambi le impronte e li convocavano in caserma per repertare tracce sulla Seat, senza che la coppia si preoccupasse: tanto da dirsi che non serviva pagare «500 euro per l’avvocato», un avvocato che peraltro non potevano permettersi. Accettavano tutto serenamente, i coniugi, perché, spiegava Rosa ai militari dell’Arma: «Quando uno ha la coscienza pulita…».
Olindo e Rosa, due ingenui che tutti hanno però descritto come bestie, che facevano schifo a tutti e che tutti potevano denigrare perché erano maledettamente soli e nessuno dei parenti o dei conoscenti prendeva le loro parti. Personaggi perfetti per fare della sociologia d’accatto sul rigurgito razzista e xenofobo dell’operosa Brianza, perché incapaci di difendersi. E si poteva così infierire invocando la pena di morte, o ridurli a barzellette macabre sui vicini di Erba, con i meme, i libri o i film che li sancivano colpevoli molto prima che si arrivasse a processo. Cosa contano i dati? Rosa aveva un cerotto sul dito (negativo però al dna delle vittime). Cosa conta che si proclamassero innocenti se il testimone aveva riconosciuto Olindo (anche se prima aveva parlato di tutt’altra persona)? Cosa contano le tracce mancanti sulla scena del crimine, se gli occhi di Olindo facevano paura?
Cosa conta che ad uno spazzino e ad una moglie analfabeta, che avevano già passivamente accettato ogni richiesta dei carabinieri senza l’esigenza di sentire un legale, era stato concesso di parlare con l’avvocato solo dopo aver confessato? In fondo, dicono tutti, hanno confessato. Cosa conta che il primo avvocato continuò ad assistere entrambi anche quando Rosa accusò Olindo di averla aiutata a compiere la strage e quest’ultimo ancora si proclamava non colpevole? Alla fine, ripetono tutti, anche lui è crollato. Cosa conta che il loro racconto facesse acqua da tutte le parti? «Se fossi innocente non confesserei mai» blaterano i giustizialisti, un’altra delle leggende che ne Il grande abbaglio smentivamo.
Così, in questa assoluta disinformazione che viene fatta ancora oggi, a tredici anni dall’eccidio, tra i professionisti della comunicazione è dunque possibile che siano tanti quelli che negano – parlando a milioni di persone dai teleschermi – che ai due siano state mostrate le foto della strage, nonostante sia tutto agli atti e perfino online. Eppure ecco come Olindo e Rosa potevano sapere dettagli che solo gli assassini conoscevano: guardando le foto. O forse, vorrei aggiungere, potevano conoscerli esclusivamente guardando le foto. Perché indovinare i particolari dei delitti di Paola Galli e Youssef Marzouk e dire dove si trovavano gli oggetti per appiccare l’incendio, sarebbe stato pressochè impossibile anche ai veri assassini: la corrente in quell’appartamento era stata staccata ore prima. L’11 dicembre, alle otto di sera, in via Diaz 25 a Erba, era buio pesto. In quel corridoio, a sinistra della porta d’ingresso, non si vedeva un bel nulla.