di Enrico Sozzetti
Quando arriverà il tempo della riflessione e della ricostruzione a mente fredda di quello che è accaduto dopo lo scoppio dell’epidemia, si scopriranno tante cose.
Per ora, restano le domande. E alcune riflessioni. Come quella sui farmaci usati per curare i pazienti. Solo ora le testate giornalistiche nazionali raccontano del Tocilizumab (farmaco utilizzato contro l’artrite reumatoide) che sembra in grado di bloccare gli effetti del coronavirus nei casi dei pazienti più gravi. L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha autorizzato lo studio “Tocivid-19” che valuterà l’efficacia e la sicurezza del Tocilizumab nel trattamento della polmonite. Poi c’è la clorochina. Nei giorni scorsi il virologo francese Didier Raoult, direttore dell’Istituto Mediterraneo per le infezioni di Marsiglia, ha presentato un primo studio su 24 pazienti curati con il Plaquenil, uno dei nomi commerciali della clorochina, utilizzata in genere contro la malaria e nella terapia dell’artrite reumatoide e del lupus eritematoso sistemico. Il 75 per cento dei pazienti trattati con il Plaquenil «dopo sei giorni di trattamento aveva una carica virale negativa».
Questi farmaci, sia chiaro, non curano l’infezione da covid-19, non esiste infatti ancora una molecola per il trattamento, ma stanno dimostrando una buona efficacia nel trattamento sia dei pazienti meno gravi, impedendo il peggioramento del quadro clinico, sia in quelli colpiti dalla polmonite. «La Clorochina o Idrossiclorochina è un farmaco maneggevole e di basso costo – ci aveva spiegato ormai molti giorni fa, prima che altri lo facessero, Pietro Luigi Garavelli, alessandrino, infettivologo, responsabile del Reparto di Malattie Infettive dell’ospedale “Maggiore” di Novara, in precedenza ha lavorato ad Alessandria – che può essere somministrato in pazienti con evidenti sintomi alle alte vie respiratorie per stroncare sul nascere l’infezione di coronavirus prima che possa evolvere causando danni peggiori a livello delle basse vie cioè il polmone. La somministrazione in questo momento può avvenire off – label (utilizzo di farmaci in situazioni che non sono previste dalla scheda tecnica del prodotto, ndr). In pratica, sarebbe possibile, a prezzi decisamente contenuti come nel caso del Plaquenil, dare la possibilità di curare tutti e creare una sorta di barriera farmacologica che può ricordare quella di tipo vaccinale».
Garavelli (autore di 14 monografie, 279 pubblicazioni scientifiche e 217 comunicazioni a congressi nazionali ed internazionali; eponimo “Zierdt-Garavelli disease” per la Blastocistosi) precisa che «fin dalla precedente epidemia di Sars si sapeva che i primi inibitori delle proteasi utilizzati per il virus dell’immunodeficienza umana (Hiv, Human immunodeficiency virus) funzionavano anche sui coronavirus. Dopo 20 anni i nuovi inibitori sono ancora meglio tollerati ed efficaci». Poi ci sono il Lopinavir usato in combinazione con il Ritonavir e il Remdesivir, nuovo farmaco antivirale nella classe degli analoghi nucleotidici (è stato sviluppato da Gilead Sciences, azienda quotata a Wall Street, come trattamento per la malattia da virus Ebola e di Marburg). Questo antivirale è in ogni caso riservato ai malati più gravi, quelli cioè per intendersi ricoverati in rianimazione. L’utilizzo avviene da diversi giorni in alcuni ospedali italiani con i primi risultati positivi. Il primo paziente contagiato da coronavirus ufficialmente guarito è stato curato Genova con il Remdesivir. Lo ha annunciato Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino. Certo, non ci sono ancora studi strutturati, tanto meno protocolli ufficiali, e quindi l’uso di farmaci off-label non viene sbandierato. Però esistono. E forse in una fase di emergenza come questa anche solo il dire all’opinione pubblica quello che si sta facendo sarebbe stato utile e opportuno.
Invece troppo spesso si sceglie la strada del silenzio. E arriviamo così alle domande che continuano a rimanere tali, in particolare in Piemonte. Dove fino a oggi non erano stati forniti dati sul numero dei guariti. Lo ha fatto il Piemonte insieme unicamente a Marche, Valle d’Aosta, Sardegna e Basilicata. Con il bollettino delle 19 diffuso dalla Regione finalmente si annuncia che «sono tre i primi pazienti virologicamente guariti dal contagio. Sono due uomini di Torino (uno di 42 anni e l’altro di 61 anni), entrambi ricoverati all’ospedale Carle di Cuneo, e una donna astigiana di 78 anni, ricoverata ad Asti. Sono guarigioni rispondenti alle indicazioni del Consiglio Superiore di Sanità, cioè documentate da due test negativi consecutivi a distanza di 24 ore. Tutti e tre i guariti sono stati dimessi e sono tornati a casa».
Poi c’è il caso di Alessandria, provincia che si conferma come un epicentro dell’epidemia tutto da studiare. Il numero dei decessi quotidiani (il bollettino del 18 marzo recita: 166 deceduti risultati positivi al virus, 59 ad Alessandria, 5 ad Asti, 22 a Biella, 8 a Cuneo, 16 a Novara, 35 a Torino, 12 a Vercelli, 7 nel Verbano-Cusio-Ossola, 2 residente fuori regione,ma deceduti in Piemonte) è il più alto del Piemonte, ma lo è anche quello delle persone positive al covid-19, esclusa la provincia di Torino (dove abitano 2.200.000 persone) rispetto a una popolazione di 420.000 abitanti. Il 18 marzo erano 2.659 le persone risultate positive: 408 in provincia di Alessandria, 116 in provincia di Asti, 121 in provincia di Biella, 170 in provincia di Cuneo, 199 in provincia di Novara, 1171 in provincia di Torino, 131 in provincia di Vercelli, 100 nel Verbano-Cusio-Ossola, 32 residenti fuori regione, ma in carico alle strutture sanitarie piemontesi.
Perché una diffusione così elevata nell’Alessandrino? Quali sono stati i meccanismi che hanno portato a una percentuale altissima di infetti, in particolare nelle case di riposo? L’essere al confine con la Lombardia non basta, benché possa rappresentare un elemento aggravante. Al momento però non vengono resi noti dati su cui iniziare a ragionare. Dalla Regione Piemonte arriva solo un aggiornamento quotidiano in termini generali. Unicamente da Tortona (dove parte dell’ospedale è stato trasformato in ‘Covid Hospital’) e da Acqui Terme sono diffusi tutti i giorni degli aggiornamenti dettagliati. Ad Alessandria, l’azienda ospedaliera da settimane è al centro di una crescente pressione con la progressiva trasformazione di decine e decine di letti della chirurgia e della neurochirurgia per i pazienti covid-19, mentre l’ottavo piano e gli infettivi sono pieni. E si parla di circa centotrenta malati attualmente ricoverati, mentre a Tortona sono oltre cento e almeno una ventina ad Acqui Terme.