a cura di Angelo Marenzana
Arriva da Roma Mario Quattrucci, l’autore ospite di ALlibri, ma già noto al pubblico alessandrino per la sua presenza in provincia (rigorosamente con il suo Borsalino in testa) per alcune presentazioni in qualità di padre del commissario Marè e delle sue numerose investigazioni romane. Impegnato dal 1953 nella vita politica e sociale, ha insegnato all’Istituto di Studi Comunisti, è stato membro del Comitato Centrale del PCI e lo ha rappresentato in Circoscrizioni, Comuni, Provincia e Regione. Occupandosi anche di arti visive, teatro, letteratura e collaborando con giornali e riviste della sinistra.
Con Quel delitto del ’56 (recentemente pubblicato da Oltre Edizioni) Mario Quattrucci decide di disseppellire un inquietante e mai ufficialmente risolto caso criminoso del lontano ’56.
È il 19 febbraio, prima domenica di quaresima, Roma imbiancata, quartiere Appio-Latino. Alle 7 del mattino un tramviere, mentre attraversa il ponte che passa sopra la ferrovia vede per caso, addosso al muretto, un cumulo di neve dal quale spunta qualcosa di nero. Per curiosità si avvicina, scosta la neve e si rende conto che il nero è un cappotto, una manica, e poi vede una mano e infine un viso… il viso di un uomo che si scoprirà essere morto ammazzato, ucciso da un colpo di pistola. Nei pressi abita anche un maresciallo dei carabinieri, chiamato dal portiere, a sua volta avvisato da una guardia notturna che il tramviere aveva incrociato al momento della scoperta del cadavere. Il maresciallo accorre, si porta dietro pure una macchina fotografica del figlio, appassionato di queste cose, e fotografa il morto. Poi arrivano, dal vicino commissariato, i poliziotti e, poi, i carabinieri, ma nel giro di poco tempo, il maresciallo fotografo verrà a sapere che le indagini non sono più affare loro e che tutto passa in mano ai servizi segreti… Chi era quell’uomo ammazzato? E perché tanto interesse da parte dei Servizi? E perché, ancora, la sua morte è stata poi gabbata come suicidio se al maresciallo è apparso chiaro, vedendo il cadavere, che l’uomo era stato ucciso e solo dopo portato nel luogo del ritrovamento? Il maresciallo, uomo valoroso, decorato in guerra e per la sua partecipazione alla Resistenza, non si rassegna ai risultati ufficiali, vorrebbe indagare, anche perché, una volta sviluppata la pellicola, mostrando la foto del morto al figlio, questi ricorda di aver visto quell’uomo frequentare la vicina sezione del PCI e tutto lascia credere, a un certo momento, dal racconto del figlio, che il cadavere sia stato appositamente lasciato lì, a due passi dalla sezione comunista. Vorrebbe indagare e, infatti, indaga per conto suo, scoprendo che – sono gli anni della guerra fredda e del “pericolo comunista” – probabilmente ‘uomo è un infiltrato, tant’è che a un certo momento il maresciallo viene richiamato e “invitato” a lasciar perdere le sue personali indagini.
Non ha lasciato perdere Mario Quattrucci, figlio di quel maresciallo, che con Quel delitto del ‘56 ci consegna una testimonianza e una rivelazione insieme, che ha tutti i crismi di un grande giallo, avvincente e scritto in uno stile personalissimo che ricorda il Gadda di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”. Un giallo che, dopo tanti anni, fa luce su un delitto rimasto insoluto fino ad oggi.
Buona lettura con un brano di Quel delitto del ‘56.
Lo trovarono il 19 febbraio, domenica prima di quaresima, alle sette di mattina. Temperature, come detto, per giorni sotto lo zero, ma il 18 e il 19, come era stato già il 2 ed il 9, nevicò a non finire.
Lo vide un tranviere nel momento in cui passava sul ponte: lo stretto ponte che l’antica Via forma a quel punto scavalcando la ferrovia. Lo vide per caso, pe’ sbajo, disse: per miracolo, disse: perché era un mucchio de neve addosso al muretto ma dal cumulo esciva quarche cosa de nero…, uno straccio…, no: una stoffa… insomma ‘na cosa.
E allora s’era bloccato. S’era avvicinato al montarozzetto, al rialzo, aveva scostato la neve, il nero era un cappotto, una manica, poi aveva visto una mano, infine una faccia.
Morto era morto, non c’era questione. Come, non si capiva…, ma lui non toccò. Me so’ messo paura, disse…, anzi no: m’ha fatto impressione…
Non passava nessuno. La neve cadeva sempre più fitta. Ma apparve una guardia notturna al rientro dal suo servizio: spingeva a mano la bicicletta, il cappello e il cappotto imbiancati.
Si conoscevano. Si parlarono. Pietro, il vigile, corse al primo portone; Anselmo, il tranviere, restò accanto al morto. Pietro suonò al portiere del 118; si fece aprire; entrò nella casa del custode; telefonarono alla PS. Il Commissariato era a poche centinaia di metri, in Piazza Galeria. Arrivarono nel giro di venti minuti.
Ma arrivarono anche i cugini: i carubba, i Ci Ci. O almeno uno di loro. Al 118, piano secondo, abitava infatti quel maresciallo: il portiere lo avvisò, lui accorse sul posto.
Era Augusto, Agusto Cenciarelli il nonno di Antonio, di Tony, il padre di Mimmo, l’amico di Gigi… e avevamo vent’anni.
Augusto, dunque − maresciallo maggiore Cenciarelli −, arrivò sulla scena del crimine…, pardon: del fatto suicidario…, prima del Commissario. Ebbe modo perciò di constatare qualcosa che in seguito sparì da tutti i verbali, resoconti, rapporti. Non però dalla sua vista esteriore e interiore, dalla memoria. Ed anche materiale. Suo figlio infatti era moderno e appassionato, e gli aveva regalato una Leica portentosa, primo recentissimo modello della favolosa serie M. Augusto se ne servì.
Scostò la neve, scoprì la testa del morto, toccò la nuca e sentì… quello che s’aspettava: un inguacchio appiccicoso e l’osso sfondato, un buco proprio nel cervelletto. E un’altra cosa, vide. Anzi due: che la neve era solo un poco rosata; che attorno al collo del morto era legato un filo di ferro e che tale filo, lungo un paio di metri, era teso verso la spalletta e agganciato alla rete sovrastante.
Fotografò ogni cosa.
Poi la camionetta questurina arrivò.
Ne scese Ciriello, il commissario di zona. Con lui un agente; l’altro rimase al volante.
− Ah, marescià: state qua voi?
− M’hanno chiamato, so’ sceso. Sapete…
− Lo so, lo so, abitate qua sopra. Ma avete già chiamato il comando di Stazione?
− No, commissà. Non ne avrei avuto il tempo. Ma mo’ ci siete voi.
− D’accordo, allora. Sta facenna ‘a pigliamme ‘n mmano nui. Ma avete constatato qualche cosa?
− Che è morto. E non certo de freddo… Ma guardate voi, commissà. È tutto vostro.
Peppe Ciriello la prima cosa che fece fu d’avvicinarsi alla jeep: − Chiama la Questura. Di’ che qua ci sta nu muorte e che mandino subito il medico legale e quei sapimme tutte d’a scientifica. Subbite: primma e mo’. E’ capite?
E finalmente si chinò sul corpo… Il quale, come avrebbe detto Peppe-er-tosto, si presentava ormai decisamente proprio in forma e figura de cadavere de morto.
Poi tutto il resto. Il medico legale; la Scientifica; il Vicequestore Vicario Diotallevi in persona… ca si nun te ne vai subbite − diceva Ciriello − finisci a pulire i cessi in Sardegna… E doppe…, dopo…, tutto come detto: quattro righe di giornale… − Un uomo di circa sessant’anni per ora sconosciuto è stato trovato morto per suicidio lungo una via consolare, appoggiato alla spalletta del ponte che la suddetta strada forma sulla ferrovia. Il suo corpo era quasi del tutto ricoperto dalla neve quindi il suicidio risale certamente alla notte tra il 18 e il 19. La Questura indaga… − e niente più.
Così. Senza ora; senza dire della causa del suicidio; senza niente sull’arma, se fosse stata trovata, e che arma fosse; senza né foto né descrizioni. Perfino il luogo rimaneva non detto: una via consolare, un ponticello sulla ferrovia, quale ferrovia tra Roma e dove lasciato all’immaginazione.
Augusto rimase in silenzio e senza mòve un dito, per l’intera settimana. E dal silenzio e dal resto intese e comprese. Ma volle la certezza.
Domenica 26, seconda di Quaresima, si mise dunque di posta a Piazza Armenia onde gli accadesse di intercettare il caro commissario. Al solito Caffè, naturalmente. Piazza Armenia, dunque. Proprio di fronte al proprio ufficio − la Stazione locale dei CC −, poco più giù, ma sempre lato manco, del glorioso Cine Tuscolo, indimenticato cinemetto del quartiere a centoventi lire la domenica, e proprio sotto le finestre di Ciriello.
Faceva ancora un freddo cane e la neve, spazzata dalle piazze e dalle vie, resisteva in grigi cumuli negli angoli in ombra dei palazzi e alla base di pali e alberelli sui viali e le strade. Un’aria gelida ed umida sconsigliava di uscire: giusto per la messa a mezzogiorno; forse il pomeriggio, se avesse stiepidito. I rari che andavano, magari a prendere il tram numero 7 per una qualche incombenza necessaria o per annà a vedé Roma innevicata, erano imbacuccati in pesanti cappotti e in sciarponi di lana.
Ma Cenciarelli sapeva che il collega Ciriello al suo caffè mattutino, specialmente alle feste comandate, prima di chiudersi in commissariato, non avrebbe mai rinunciato.
Specialmente in quel Caffè: Caffè Armenia di antiche origini e auguste − lui diceva napoletane − che ‘o cafè o faceva comme Dio comanda, proprio come a Napoli il Caffè del Professore: con la miscela appena torrefatta del Foroni, che allora ancora stava − Coloniali & Torrefazione − in Via Gallia di sopra.
E là lo attese. E là lo incontrò.
Marescià, comme va? State buone? V’o pigliate nu cafè co’ me?
E perché no? Questo, poi…
Volete anche un maritozzo, un babà, ‘na sfogliatella?
Grazie, grazie, ma non esageriamo. Lo sapete che a zucchero ho da annà cor bilancino.
E va bene, va… Ma, diciteme a verità: non è che siete passato per caso sotto a casa mia e vi siete fermato per caso al caffè mio, e m’avete incontrato per caso proprio stammatina…
E si fece ‘na risata.
Ciriello era uno di quegli sbirri che non sapeva nemmeno lui…, nunn’o sapeva manch’isse…, come era finito questurino. E come era uscito quasi indenne dal ventennio e da Roma Città Aperta. Fisicamente ricordava Aldo Fabrizi, ma al contrario di colui era sempre stato antifascista. Coperto, ma antifascista. E durante l’occupazione fu dalla parte giusta: aiuti come poteva a gente tribolata e soprattutto ebrei: una famiglia addirittura l’aveva ospitata e nascosta a casa sua, con falsi documenti, come fossero suoi parenti scappati da Salerno. E per tutto quel passato, con Augusto s’intendevano si stimavano e se voleveno bbene. Perché i legami stretti a quel tempo di tragedie e sofferenze, quando una parola sola ti poteva portare avanti al muro, non si sciolgono più.
È vero Peppi’. Nun so’ passato pe’ caso. Volevo proprio sbafatte sto caffè.
E sapere qualche cosa no?
E sapere qualche cosa, certamente.
Malgrado il freddo uscirono all’aperto. Troppe orecchie appizzate intorno ai due…