a cura di Angelo Marenzana
Un gradito ritorno tra gli ospiti di ALlibri, quello di Enrico Fovanna, giornalista milanese che da sempre si è occupato di temi sociali immigrazione, diritti umani. Per il Giorno ha realizzato reportage da Iraq (tra cui La caduta di Bagdad, 2003); Afghanistan, India, Thailandia (Tsunami 2004), Kurdistan turco e iracheno. Tra le sue pubblicazioni, i romanzi Il pesce elettrico (1996, Baldini & Castoldi) e Tra Fès e Meknès (1999, E/L), e la biografia L’inventore dell’Invisibile (2012, Utet).
All’appuntamento di oggi, Enrico Fovanna si presenta con il suo ultimo romanzo L’arte sconosciuta del volo edito da Giunti, dove l’autore fa riaffiorare ricordi che, se da un lato gli permettono un ritorno a casa, dall’altra aiutano a svelare un mistero irrisolto.
Il suo personaggio letterario è Tobia, che torna da adulto nel suo paese d’origine, Premosello, per percorrere a ritroso la verità sull’omicidio di Gioacchino, sei anni, avvenuto nel lontano 1967. Una verità su cui Tobia si impegna a fare luce quarant’anni dopo a seguito della telefonata di un amico d’infanzia.
Gioacchino era un compagno di scuola di Tobia e non perdeva occasione di umiliarlo. La sera della sua morte tra loro due era finita a botte e Tobia non aveva avuto il coraggio di raccontarlo alla polizia. Tuttavia, una volta trovato il colpevole, gli era rimasto il dubbio che fosse stato qualcun altro a ucciderlo.
Enrico Fovanna ci conduce nei luoghi montani della Val Grande, nell’Italia che è stata, di come la ricordiamo e di quello che oggi ne è rimasto. Con la maestria del giallista trascina la curiosità dal presente al passato, in una dimensione rivissuta nei sogni e scaturita da una semplice chiamata. L’arte sconosciuta del volo è un romanzo che sa giocare con i generi, con le parole e con il lettore, in un viaggio nella montagna piemontese e nella verità.
Buona lettura con un brano di L’arte sconosciuta del volo.
Credo di aver cominciato a volare nell’inverno del 1969.
Era una domenica mattina e avevo poco più di otto anni. Svegliato dalle campane che annunciavano la messa, scesi di sotto, dove trovai mio padre già vestito per la festa. Sembrava teso, ma poteva fare colazione con noi senza il pensiero di andare al lavoro. Così ci raccontò nei dettagli quel che aveva saputo.
I primi brandelli della camicia erano spuntati dalla terra verso le sei di sera del sabato, quando i tre carabinieri, al lavoro da ore con pala e piccone, stavano ormai per rinunciare. Il corpo del ragazzino venne dissepolto di lì a poco, sulla strada di campagna che dal Ponte Rosso portava al ruscello. Era il 1 novembre, vigilia del giorno dei morti.
Poche ore prima, in mattinata il postino aveva portato alla caserma la busta con una lettera anonima, battuta a macchina, che segnalava la collocazione del cadavere, corredata da un maldestro disegno.
Il timbro sul francobollo parlava chiaro: era stata imbucata il giovedì nell’unica casella del paese, di fronte al viale della stazione. Così nel primo pomeriggio, dopo il caffè e un breve consulto sul da farsi, il maresciallo aveva inviato in campagna la jeep con i militari in borghese e i badili, seguendoli in Vespa con la mappa in mano.
Dopo il ritrovamento dei resti era scattata la caccia a qualsiasi dettaglio o testimone che potesse fare un po’ di luce su quel nuovo orrore. Il secondo, in pochi mesi.
Tanto bastò perché la domenica pomeriggio in paese tornassero i giornalisti, la stessa troupe del Primo Canale RAI già comparsa tempo prima con una 127 bianca targata Torino, quando anche la compagna di classe del ragazzino morto era stata ritrovata senza vita da un passante, ai margini di un torrente. Proprio come lei – dissero la sera in tv – il bambino sarebbe stato colpito da un corpo contundente, una roncola o un pesante tubo di ferro.
“Ma perché – si chiedeva al microfono il giornalista, fissando con intensità la telecamera e corrugando la fronte con aria preoccupata – perché nel caso del ragazzo il corpo era stato interrato? Perché l’assassino aveva aspettato tutto quel tempo per rivelare il luogo della sua tomba? Cosa lo aveva mosso a una seppur tardiva pietà? Dietro la lettera c’era forse un messaggio, destinato a qualcun altro?”
La sera dopo, archiviati gli aggiornamenti dall’estero e sul governo, prima di passare ai risultati delle partite, lo speaker rivelò una clamorosa svolta. “Il giallo dei due bambini uccisi in Val d’Ossola. I carabinieri hanno trovato nel paese una macchina per scrivere con caratteri Remington, modello piuttosto raro e del tutto compatibile con la lettera anonima arrivata in caserma.”
Oggi, quarant’anni dopo, tutto ciò mi sembra quasi appartenere alla vita di un altro. E realizzo che da anni non ripensavo con tanta intensità alla mia infanzia. Vivo ormai lontano, più nel tempo che nello spazio, certo. Ma non è tutto qui. Credo piuttosto di aver cominciato a costruire un muro tra me e quegli anni il giorno stesso in cui me ne sono andato all’inizio degli anni ’70, dopo avere promesso a un albero, anzi giurato, che non mi sarei fatto più vedere.
Ho rimosso i luoghi dove avevo visto morire due compagni di classe. Dove avevo perso di vista Ettore, il mio migliore amico. E Carolina, la bimba che amavo. Con quella potenza del sentire che uno prova – almeno così è accaduto a me – solo da bambino. Il mondo dove avevo lasciato condannare un vecchio eremita, che sapevo innocente, nonostante l’evidenza delle accuse a suo carico.
Me ne ero andato poi a vivere altrove con la mia famiglia e lì, in qualche modo, era ricominciato tutto. Oltre il valico del Tempo. Ogni tanto, anche da adulto, nei miei sogni ripassava Carolina, come una farfalla leggera e capricciosa. Non la scacciavo con le mani nel buio, ma le sorridevo. In fondo non ce l’avevo con lei, anche se mi aveva a tutti gli effetti abbandonato. In quelle notti la amavo ancora. Mi concedevo di amarla, come si fa con le creature incorporee, incapaci di generare dolore.
Così, quando pochi minuti fa ho ascoltato la voce di Ettore, per la prima volta dopo quarant’anni, ho rivisto d’improvviso un prato. Ancora lì, intonso, oltre le nebbie dei milioni di ricordi più freschi. La stazione e una locomotiva. E ho capito. Ho capito che in qualche modo il giorno era arrivato: dovevo venir meno al giuramento.
***
Questa storia comincia davanti a un albero. Era un giorno di primavera a Premosello, un paesino del Nord Italia, due passi dalla Svizzera, e io avevo da poco compiuto i sei anni. Il giorno in cui conobbi per la prima volta l’Amore e, manco a dirlo, come tutte le cose importanti l’amore non aveva ancora un nome.
Mancava poco alla fine dell’asilo. Un paio di settimane prima, il 23 aprile, mamma aveva messo in tavola la crostata di compleanno e papà tirato fuori dalla cantina una bicicletta rossa fiammante, dalla quale da lì in poi mi sarei separato solo per dormire, mangiare o entrare a scuola. Una bici da cross, con gli ammortizzatori e le gomme dentate, che a me pareva già a motore. Bastava attaccare una cartolina tra i raggi, con una molletta da bucato, e il frastuono di un elicottero era fatto.
Quello stesso pomeriggio dunque, mentre pedalavo verso la casa di Ettore, feci una scoperta: un grande e solitario ciliegio, a fianco del viale della stazione. Svettava seminascosto in uno spiazzo d’erba incolta, ai margini dell’asfalto, e pareva non appartenere a nessuno.
Ettore, che dalla finestra mi vide immobile a fissarlo sulla bici nuova, scese e mi raggiunse subito. Faceva già piuttosto caldo all’inizio di maggio e la pianta non sembrava facile da scalare, specie per due nanerottoli come noi. Ma un vecchio ramo a due metri dal suolo era stato reciso da una motosega.
Per arrivare alle ciliegie, bastava che uno salisse sulle spalle dell’altro, si appendesse allo spuntone e facesse leva con i piedi.
Ci provò prima lui, ma ruzzolò subito a terra.
Così io, che ero più magro, presi l’iniziativa e lo invitai ad appoggiarsi di schiena al tronco, in modo da potergli salire sulle spalle. Per convincerlo, mi tolsi le scarpe e promisi che avrei calato una corda sfibrata dalle piogge, che penzolava qualche metro più in alto. Poi cominciò l’operazione e lui si attaccò alla corteccia. In pantaloni corti, la scalata mi procurò qualche taglio ed escoriazione, di cui sarei andato fiero per giorni. Raggiunti i primi rami, mantenni la parola e buttai il cappio di sotto.
Di sopra, guardammo per la prima volta il paese da una prospettiva sconosciuta, come gli uccelli. Da lì si poteva dominare il paesaggio, non visti. Intercettare il fumo di una locomotiva, o l’arrivo di una littorina in lontananza, ben prima che la voce da rospo del capostazione annunciasse i convogli, facendo gracchiare l’altoparlante. Sotto gli orizzonti lontani svettavano le montagne. Due catene parallele, a qualche chilometro l’una dall’altra, tra le quali correva la vallata, che racchiudeva l’abitato di Premosello, la ferrovia e il fiume Toce, i cui bagliori rilucevano appena oltre la campagna.
Due barriere alpine contrapposte, a Nord e a Sud, che avevano nascosto i partigiani in fuga dai nazifascisti, durante il rastrellamento del 1944.
Lassù erano a portata di mano le ciliegie migliori, che però sarebbero presto venute meno, scatenando una pericolosa scalata ai rami più alti e sottili. E poi si vedeva la ferrovia, dall’alto. La linea che correva verso Vogogna, da una parte, e Cuzzago, dall’altra. Il casermone rosato con la sala d’aspetto, la biglietteria e l’ufficio del capostazione, affacciato sui binari. Il sottopassaggio. E fu proprio da lì che, quel pomeriggio di quasi giugno, vidi qualcosa da cui non riuscii a staccare lo sguardo.
Il treno per Novara era appena arrivato al sesto binario, stridendo sulle rotaie, e la gente aveva imboccato il sottopassaggio. Ettore mi chiese qualcosa, ma io sentii solo dei suoni indistinti, perché ero del tutto incantato su un’immagine, un’immagine in movimento.
Dalla scalinata, accanto a un uomo baffuto e magro, era comparsa una bambina dai capelli neri e lunghi, che poteva avere sei o sette anni. Vestiva con un abito leggero e bianco, alle ginocchia, e portava dei sandali. Il sole batteva sulla sua nuca e quelle onde di luce sulla chioma corvina fluivano avanti e indietro come riflessi ipnotici.
Avrei smesso di respirare, se avessi potuto, pur di non perdere un fotogramma. L’uomo avanzava tenendo la bimba da una mano e una piccola valigia dall’altra. Calpestavano la ghiaia bianca e nera del viale con ritmo regolare e, passo dopo passo, si avvicinavano all’albero.
Erano ormai a pochi metri, sotto di noi, quando l’uomo alzò lo sguardo. Forse aveva sentito Ettore parlare. E io, con la bocca rossa di ciliegie, pensai di evaporare nell’azzurro, di fuggire verso la luna, ma il tizio sorrise. Sorrise per qualche istante senza cambiar di passo, poi lasciò la mano della bimba e fece un cenno di saluto.
Solo a quel punto anche lei si accorse di noi, sui rami, e si fermò a scrutarci. Si fece schermo sulla fronte con la mano tesa, per ripararsi dal sole, e rimase lì, senza parole. Senza un sorriso, senza mutare espressione. La luce dal cielo si rifletteva a tratti nel nocciola dei suoi occhi. Durò pochissimo, perché Ettore alzò una mano per rispondere al saluto e io anche, seppur riluttante.
L’uomo coi baffi riprese per mano la bimba e tornò a infilare il viale, di spalle, fino a quando non sparirono entrambi sulla Statale del Sempione, all’altezza del semaforo, svoltando a un centinaio di metri. Solo a quel punto tornai a sentire il vento tra i rami e la voce di Ettore, che con il dito indicava l’orologio della stazione.
Uno strano uccello scuro si era appoggiato alla lancetta e giocava a far l’acrobata. Lo invidiai. Non ricordo altro di quel pomeriggio, se non il suono delle campane che veniva dalla chiesa e quel senso di vuoto improvviso che provai. La luce nera dei capelli della bimba mi aveva del tutto ipnotizzato. Avrei voluto darle i due orecchini di ciliegie che mi ero messo da solo. Non sapevo chi fosse, la mia conoscenza del territorio e dei suoi abitanti non si era ancora spinta oltre il triangolo tra la mia casa, l’asilo e l’albero su cui stavo. Ma l’avrei rivista, ne ero sicuro.