Per uno nostalgico quale son io ci vuole proprio poco per provare il magon, lo struggente sentimento della nostalgia, per qualcosa di bello che non c’è più e che nessuno ormai sarà più in grado di restituire.
Stavolta però non sto parlando di edifici o di angoli scomparsi della nostra città, bensì di una persona. Una donna alla quale non si può fare a meno di affezionarsi.
Sto parlando di Lucia Lunati, la scrittrice che nel 1968, con la pubblicazione della sua opera La mia cara Alessandria, riuscì (e ancora riesce) a far percepire tutto il suo affetto per questa sua e nostra città.
Se penso che avrei potuto incontrarla durante i festeggiamenti in occasione dell’Ottavo Centenario della nascita della Città non mi do pace. Lungo il corso del 1968 avevo partecipato attivamente a quasi tutte le iniziative indette dal Comune e certamente la signora Lucia sarà stata presente almeno in qualcuna di quelle occasioni per la presentazione del suo lavoro editoriale. Sono sicuro che se a quell’epoca avessi letto il suo bel saggio, certamente mi sarei sentito desideroso di conoscerla e certamente avrei potuto incontrarla…
Non ci resta che cercare di scoprire almeno in parte i suoi pensieri attraverso la lettura di nuove pagine della già citata opera. Ecco le sue parole.
“Non so per quale motivo o usanza gli alessandrini dedicavano la festività di San Giuseppe – 19 marzo (ora vi è la Milano-San Remo, assai più affascinante) – a Marengo, mèta di una lunga passeggiata per chi la faceva a piedi. C’era anche il tram a vapore. In tale giorno in ogni casa facevano i così detti «farciò», frittelle o bigné, e mi pare che questa usanza duri ancora presso molte famiglie ed è diffusa in tutta Italia. A Marengo per questo giorno se ne potevano mangiare di gustosissime e chi poteva non rinunciava a questa scampagnata all’inizio della primavera. La mamma ci portò qualche volta, ma in carrozza perché per la nonna e per me la strada era un po’ lunga. Per noi una simile festa era uno svago insolito perciò molto apprezzato. Salivamo davanti a casa la nonna, la mamma, mia sorella ed io. Percorrendo via Dante si sbucava davanti all’arco trionfale, qualcuno lo chiamava di Marengo. Vi si passava accanto e si costeggiava la piazza d’armi vecchia (ora piazza Matteotti), come era chiamata perché allora vi facevano istruzione le reclute e a volte si vedevano file di cannoni ben allineati. La piazza, senza gli edifici che vi sono oggi, era attraversata da una strada che però non era tracciata come tale, ma si era formata credo da sé per il continuo transito che nessuno forse vietava e che dava più brevemente lo sbocco in città. Allora via Tortona era la strada obbligata per uscire fuori porta. Non dimentichiamo che parlo di settant’anni fa.
Alla fine della strada vi era un casotto come ogni porta della città, che era del dazio, ove due guardie sorvegliavano l’entrata in città come del resto ancora vi è oggi ma più organizzato e a cui nulla sfugge.
Passato questo casotto si imboccava la pusterla[1] e attraversando i bastioni eravamo «fuori porta», come si diceva, e tutto sembrava diverso. Pareva aver varcato un confine. L’aperta campagna, il verde e la polvere ci davano l’idea di sentirci liberi.
Il tratto era breve per raggiungere il ponte di legno sul Bormida, ed a questo punto, per noi, vi era una fermata d’obbligo. Ai lati dell’entrata al ponte, vi erano due platani, quello a sinistra non prosperato che sfigurava anche di più in confronto a quello di destra già sin da allora enorme. Tutti lo chiamavano «la pianta grossa» ed era davvero eccezionale tanto è vero che venne poi messo sulla «Domenica del Corriere» come cosa d’eccezione.
La mamma faceva fermare la carrozza ai margini della strada per scendere un po’ ad ammirare per l’ennesima volta la pianta, ma soprattutto per fare un acquisto d’eccezione. Sotto il mastodontico ombrello di foglie del platano, vi erano installate due donnette che vendevano lupini, mele a bagno (in dialetto pum mujà) e carrube. Le mele erano per me una vera ghiottoneria; non so come venivano trattate quelle mele dalla pelle color ruggine con un sapore agro e dolce inzuppate d’acqua che davano un piacere dissetante alla gola e buon gusto al palato.
Quanto pagherei poterne mangiare ancora qualcuna! Ma forse non avrebbero più lo stesso sapore di allora. I lupini li mangiavo senza entusiasmo e le carrube secche (che si aprivano prima per vedere se non erano passate) le masticavo per sentire uno strano sapore indefinito. Non capisco ora come si potessero mangiare le carrube, che sono cibo da asini, del resto tutta quella mercanzia andava venduta facilmente perché al nostro ritorno le due donne avevano tutto esaurito.
Rimontate in carrozza, si proseguiva e per me e la mamma erano minuti di apprensione.
Il ponte di legno dicevano che era molto malandato, non sicuro e che qualche volta sarebbe successo un guaio e per questo io e la mamma trattenevamo il fiato quando il cavallo e le ruote ferrate passavano sul ponte. Facevano un rumore che a noi due dava la tremarella e perdevamo la parola per paura che succedesse proprio in quel momento il guaio tanto temuto da tutti. La nonna e mia sorella erano ottimiste e ci ridevano sopra.”
Il racconto della scampagnata a Marengo prosegue ancora e – quindi – proporrei leggere il resto della cronaca nel corso della prossima rubrica.
Come abbiamo potuto comprendere dalle semplici parole della signora Lucia la vita a quei tempi (anno 1900 circa) era ben diversa da quella odierna. La strada per Marengo non era trafficata come oggi e ci si poteva permettere il lusso di fermare la carrozza per fare acquisti di cibarie.
Inoltre bastava una semplice mela, sia pur conservata a regola d’arte, per rendere migliore il senso dell’intera giornata. Tempi andati, fatti anche e soprattutto di cose semplici, di squisitezze gustate con serenità nel corso di un giorno di festa che, proprio grazie a piccole cose, diventava eccezionale.
A corredo di queste pagine voglio proporre una parte della pianta di Alessandria del 1900 in cui si vede l’itinerario per uscire dalla città e ben descritto dalla nostra signora Lucia e ben quattro cartoline appartenenti ai primi anni del ‘900.
La prima cartolina raffigura una bellissima via Dante nel tratto compreso tra via Tripoli – Via San Dalmazzo e via Machiavelli – Via San Pio V.
Segue un’immagine di Via Dante alla congiunzione con la Piazza d’Armi (ora Piazza Genova)[2]. Questa cartolina ci dona la vista di un edificio sulla destra e un basso muro sulla sinistra oltre all’Arco avvolto dalla vegetazione e nessun’altro edificio oltre. Un lampione a gas fa bella figura sul suo braccio di ferro battuto. Acciottolato e marciapiedi di granito sono in gradevole fondo stradale.
La terza cartolina è davvero molto interessante; illustra con estrema chiarezza la geografia del tratto di strada per Marengo, precisamente dove il tracciato interseca la Bormida[3]. Accanto al nuovo ponte in muratura – appena inaugurato (1918) – si vede, un poco più a monte, il vecchio ponte in legno così ben descritto nelle pagine appena lette. La carrozza che conduceva a Marengo la giovanissima Lucia Lunati con mamma e nonna transitava proprio sopra questo antico manufatto.
Infine ho pensato di proporre una cartolina in cui è possibile osservare meglio le fattezze del ponte Napoleone I (così recita la didascalia della cartolina). Qualche tempo dopo la costruzione del ponte in muratura sulla Bormida le travi ed i tavolati del vecchio ponte in legno furono impiegati per costruire un analogo ponte in legno a Bassignana. La cartolina del ponte è – per epoca – la più vicina al racconto della signora Lucia, rispetto agli altri soggetti che però sono più recenti di qualche anno soltanto.
L’appuntamento è per la prossima domenica, per conoscere l’epilogo della passeggiata fuori porta.
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[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Postierla
[2] In realtà la toponomastica ci dice che Piazza Genova oggi non si chiami così bensì Piazza Matteotti. Per gli alessandrini però essa resta sempre Piazza Genova. Per saperne di più:
https://mag.corriereal.info/wordpress/2015/02/22/larco-di-piazza-genova-un-tuffo-nel-passato-2/
[3] https://mag.corriereal.info/wordpress/2014/12/14/trattoria-ponte-bormida-un-tuffo-nel-passato-2/