Barry il gigante [Lettera 32]

di Beppe Giuliano
L’Ajax non era solo una squadra di fútbol, era la mia rock-band di quando avevo 9, 10 anni.
Quando uno di loro se ne va mi sento proprio come quando, sempre più di frequente, muore uno dei musicisti con la cui musica son cresciuto.
Crudelmente se n’era già andato il Mick Jagger dei “lancieri”, quello che magnetizzava gli sguardi, col numero 14 e le sue mosse imprevedibili.
Ora è toccato a Barry Hulshoff, il gigante dai lunghi capelli neri e dalla barba folta.
Se vogliamo restare nella similitudine rock-band, allora lo stopper Hulshoff era uno di quelli della sezione fiati. Suonava di sicuro uno strumento grande Barry il gigante, un trombone direi, e di fianco a lui il biondo e molto più elegante libero Blankenburg era il sassofonista.
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L’Inter, la squadra per cui tifavo, aveva vinto quel campionato di inizio anni settanta in modo del tutto inaspettato. I giocatori sembravano in declino, faticavano, Mazzola e Corso si sopportavano poco, nessuno dei due (e nemmeno molti degli altri) sopportavano “Accacchino”, l’altro Herrera, Heriberto col suo “movimiento” e i suoi allenamenti forsennati.
Quando riuscirono a farlo cacciare il Milan sembrava già scappato. I vecchi si misero d’accordo, sull’aereo della trasferta di Napoli, fecero la famosa “tabella” e la rispettarono. Fu una rimonta memorabile, uno scudetto vinto in modo, appunto, del tutto inaspettato.
Negli stessi giorni la finale della Coppa dei Campioni era stata lei pure del tutto inedita.
C’era addirittura arrivata una squadra greca (allora poteva succedere) allo stadio di Wembley all’inizio di giugno del 1971, il Panathinaikos allenato dal mitico Ferenc Puskás, lo straordinario campione ungherese che aveva poco più di quarant’anni ma sembrava già molto vecchio.
E l’Ajax, per una volta ancora con i canonici numeri dall’uno all’undici, unica eccezione naturalmente il 14 di Cruijff.
Nemmeno da dirlo, vinse l’Ajax al primo trofeo continentale.
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L’anno successivo ai vecchi dell’Inter riuscì un altro mezzo miracolo, e in qualche modo arrivarono alla finale di Rotterdam, nonostante il Mönchengladbach del 7-1 e della lattina in testa a Boninsegna, e grazie al piedino di Jair che mise dentro il rigore decisivo della semifinale col Celtic, dopo due partite e due tempi supplementari senza un gol, forse senza uno straccio di tiro in porta.
In finale li aspettava l’Ajax, e fu crudele con i vecchi campioni dei fasti della grande Inter, i Mazzola, Facchetti, Burgnich all’ultimo palcoscenico, invece negato a Mariolino Corso che, nel pandemonio contro il Borussia aveva (pare) tirato un calcetto alla giacchetta nera, con conseguente lunga squalifica.
Fu davvero crudele per i nerazzurri.
Io ho un ricordo indelebile di quella finale.
L’inter proprio non riusciva a passare il centrocampo. Il pallone ce l’avevano sempre loro. Sempre.
Poi, chissà come e perché, si trovò avanti Giubertoni. Lo stopper, di quelli che si definivano “arcigni”, uno che manco dava del tu al pallone. In attacco, all’ala: Giubertoni?!?
Arrivò Hulshoff, Barry il gigante, enorme e spaventoso. Grosso come uno di quei camion che costruiscono lì in Olanda lanciato alla massima velocità.
Travolse l’indifeso, unico interista che aveva osato superare la metà campo.
Il povero Giubertoni uscì dal contrasto groggy. Toccò sostituirlo. Era il 12’ del primo tempo, leggo nei tabellini. Entrò al suo posto Bertini. Non che cambiasse qualcosa, comunque.
Finì 2-0. Segnò Cruijff, ovviamente.
E l’anno dopo l’Ajax e pure Hulshoff vinsero di nuovo, la terza consecutiva Coppa Campioni.
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A quel punto ero già innamorato di quella squadra, di come apparivano oltre che di come giocavano. E un po’ spaventato da quel giocatore che, quando per primi e con molti anni di anticipo iniziarono a usare i numeri personalizzati, si era scelto il 13.
Barry Hulshoff. Se ne è andato anche lui. La mia rock-band di quando avevo 9, 10 anni sta uscendo di scena, man mano.
Un inchino e sipario.