di Danilo Arona
La versione teatrale de L’esorcista è una bella storia. Prima di tutto a livello personale in quanto l’ho visionata in terza fila al Teatro Nuovo di Milano in eletta compagnia del mio pard di sempre Edoardo Rosati, in una posizione a dir poco strategica nella platea stracolma. Ma la storia è bella oggettivamente. Tanto per il testo che per l’allestimento. La storia, ovvio, è sempre quella che conosciamo, ma la riscrittura di John Pielmeier – che è un interessante adattamento ai giorni nostri e alle contingenze teatrali – offre più di uno spunto di riflessione.
Salta per forza il leggendario prologo ambientato in Iraq e ogni riferimento, anche verbale, al demone Pazuzu, ma il contenuto si arricchisce in forza simbolica perché nel 2019 è il Male a tutto tondo, quel Male che a ogni latitudine sembra invadere corpo e mente di più persone – e lo dico da laico quale sono, a presentarsi come il Nemico per eccellenza. Ne guadagna anche, soprattutto, il personaggio di Chris, la madre di Regan, ben più indagato e approfondito che non nell’originale di William Peter Blatty – il che potrebbe suonare paradossale visto che Blatty, con William Friedkin, l’ha modellata ex novo basandosi sulla reale figura di Shirley MacLaine. Scopriamo ad esempio che è una donna che ha passato le sue grane e che in passato ha abortito con le pesanti conseguenze psicologiche del caso.
Anche Padre Karras, qui ripreso nel massimo della sua crisi vocazionale al punto che all’inizio della possessione quasi non intende minimamente credere all’esistenza di una forza diabolica invasiva – perché di conseguenza dovrebbe ammettere quella divina -, è analizzato con l’identica attenzione riservatagli da Blatty nel testo originale. Idem per Burke, l’amico di Chris che esce di scena – è il caso proprio di precisarlo -, volato fuori dalla finestra della cameretta di Regan sulla scalinata di Georgetown, e i due medici, Strong e Klein, che rappresentano la voce della scienza, in questo caso inascoltabile per quanto raziocinante. Da aggiungere che Karras non si uccide buttandosi pure lui dalla finestra come accadeva nel film, ma si pugnala con un crocefisso regalando alla scena una maggiore forza simbolica.
La grande sorpresa però è proprio il personaggio di Regan che diventa più centrale rispetto al film. Pielmeier le concede più monologhi, stacchi che per quanto brevi mettono in luce le contraddizioni e le fragilità della sua giovane età, essendo lei come sappiamo una dodicenne adolescente per di più traumatizzata dall’assenza un padre lontano causa divorzio.
E note più che positive anche sull’allestimento e l’interpretazione dei personaggi. Partiamo proprio da Regan, resa in modo perfetto dall’attrice Claudia Campolongo che dall’alto dei suoi 44 anni si cala nei panni di una bambina indemoniata con straordinaria aderenza al ruolo. Scena divisa degnamente con il grande Gianni Garko (Padre Merrin), Viola Graziosi nel ruolo di Chris, Jerry Mastrodomenico nella parte di Burke Dennings, Massimiliano Lotti nel doppio ruolo del dottor Klein e del Vescovo, mentre Michele Radice e Simone De Rose interpretano rispettivamente il dottor Strong e Padre Joe.
L’allestimento, diretto da Alberto Ferrari, privilegia con sperimentali soluzioni scenografiche l’origine cinematografica del mito. Intanto in più passaggi la scena è “splittata” in più ambienti, proporzionalmente coerenti, con gli attori che trasmigrano da un set all’altro, mantenendo inalterato il livello emozionale della messinscena. E in due o tre occasioni il set si trasferisce persino in platea… Ma addirittura si riescono a visualizzare effetti speciali fino a poco tempo fa impensabili sopra un palco, dalla levitazione del corpo di Regan che si alza “a croce” sopra il proprio letto al mitico schizzo di vomito verde, che se è stato realizzato in digitale complice l’oscurità della scena è proprio un capolavoro – ma non posso darne conferma.
Altra nota di massimo rilievo sono le musiche e tutto l’apparato sonoro, in grado di scuotere poltrone, visceri e cervelli (peraltro è il Diavolo, baby…).
La colonna sonora originale è stata scritta appositamente da Ben Sprecher e Stuart Snyder ed è colta, suggestiva e a suo modo tranquillizzante. Ma quando alla fine dei due ansiogeni atti partono le note di Tubular Bells di Mike Oldfield che sottolineavano i momenti-clou del film di Friedkin, non c’è possibilità di resistere: la platea scatta in piedi – ne compreso che sono notoriamente compassato – per un lungo, lunghissimo applauso. Quanto mai meritato.
Se il tour teatrale de L’esorcista di John Pielmeier transita dalle vostre parti, fatevi un regalo: non perdetelo. Come ha scritto qualcuno in rete, è un’esperienza così coinvolgente che poi la domanda, per quanto citrulla, ti senti costretto a portela: «Ma è stata davvero tutta una finzione?»