di Dario B. Caruso
“Siamo donne, oltre le gambe c’è di più” cantava un tormentone pop degli anni Ottanta.
Oltre le gambe di una donna.
Un tema usato e talvolta abusato ma sempre drammaticamente attuale, soprattutto in questi giorni in cui si desidera stigmatizzare il comportamento malsano dei maschi.
In effetti guardare oltre sembra diventata una pratica desueta.
Abbiamo cresciuto le intere ultime generazioni nella coscienza della prevenzione, quella pratica che consente di accendere in ciascuno la capacità di approfondire, di non soffermarsi alla prima vista, di non fossilizzarsi sulla prima impressione bensì di andare oltre.
Non si tratta di preveggenza né di essere stregoni.
Oltre è avverbio che predispone alla conoscenza dell’altro, dell’ignoto.
Oltre il mare.
Oltre l’apparenza.
Oltre il visibile.
Oltre me.
Oltre il titolo.
Quante volte ci accade? Di soffermarci al titolo di un giornale, di un articolo, di un film, di un romanzo, e senza conoscerne il contenuto pronunciare una valutazione.
È a quel punto che – rendendoci conto della nostra ottusità – ci viene la voglia di gridare “Voglio un cervello!”, precisamente come lo spaventapasseri del mago di Oz. Chiede ad altri di fornirgli qualcosa che già possiede.
L’abitudine a crogiolarci nelle nostre incapacità spesso ci costringe all’ozio: più facile vivere in superficie facendoci tradurre da altri un pensiero piuttosto che usare il nostro tempo e il nostro cervello per formularne uno proprio.
È la legge di sempre che ritorna moderna.
Oltre il titolo scopriamo un mondo, magari diverso dal mainstream ma nostro, completamente nostro.
Anche se fa comodo essere spaventapasseri (o far credere di esserlo) proviamo ad andare oltre.
Oltre le gambe c’è di più.