Anime urlanti di Nicola Lombardi [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

Ospite domenicale di ALlibri è il ferrarese Nicola Lombardi, autore che festeggia i suoi trent’anni di pubblicazioni legate al mondo dell’horror (la sua prima antologia, Ombre, uscì appunto nel 1989). Membro dell’Horror Writers Association (diversi suoi lavori sono stati pubblicati in lingua inglese), suoi sono i romanzi tratti dai film di Dario Argento Profondo Rosso e Suspiria per la Newton & Compton. Si è imposto anche come traduttore per il mercato italiano lavorando sulle opere di vari autori, tra cui Frank B. Long, Seabury Quinn e Jack Ketchum. Tra i romanzi ricordo I Ragni Zingari, Madre nera, La notte chiama (con Luigi Boccia) e La Cisterna.

E’ quindi, in occasione del trentennale che la casa editrice Watson presenta Anime Urlanti una raccolta di quindici racconti nerissimi scritti da Nicola Lombardi, selezionandoli tra inediti o comparsi in passato su varie antologie, riviste o periodici locali. Una lettura che, a detta dell’editore, garantisce brividi in abbondanza!

Per gli appassionati del genere si tratta di una vera e propria discesa negli abissi dell’incubo e della paura, il tutto concentrato in racconti tesi a esplorare i lati più oscuri del nostro cuore e per fare i conti con i nostri fantasmi e ascoltare le loro voci. Ma soprattutto per ascoltare le loro voci senza dimenticare che nel buio e nel silenzio siamo tutti quanti delle Anime Urlanti

Per i lettori di ALlibri è stato scelto il racconto Apri gli occhi.

 

 

Il trillo si fece largo, a poco a poco, fra le nebbie informi e pastose del sogno, come un grossolana punta di trapano contro un muro che resiste ai primi cauti assalti, ma che poi, inevitabilmente, si sfalda in un vortice polveroso. Le palpebre di Vanni si sollevarono di scatto, lasciando che le pupille si colmassero di quel buio gremito di puntolini colorati di cui la stanza sembrava pullulare. Colpi ritmici e concitati riverberavano attraverso il materasso per risalire a rimbombargli nelle orecchie, come se il suo cuore fosse cucito all’interno del cuscino. Cosa lo aveva svegliato?

Tutte le illazioni che gli erano fiorite nella testa durarono il tempo intercorso fra l’affievolirsi di uno squillo e l’esplodere del successivo. Nel silenzio che stagnava nella casa, quel suono metallico, perentorio, aveva il potere di  penetrare fino in fondo all’anima, affogandola in una paura senza nome. Il telefono? A quell’ora? Ma del resto, che ore erano? A Vanni pareva di essersi appena coricato, ma sapeva che la percezione del trascorrere del tempo notturno l’aveva sempre ingannato.

Altri squilli, insistenti. Voltò il capo verso la moglie, distesa al suo fianco sotto due strati di coperte, quasi potesse vederla in quell’insondabile oscurità. Meglio alzarsi, prima che Lucia si svegliasse. Poveretta, non stava molto bene. Doveva essersi presa una brutta influenza. Le aveva misurato la temperatura, prima di mettersi a letto. Trentotto e quattro. Non eccessiva, per una persona di robusta costituzione. Ma abbastanza debilitante per una donna che sfiorava l’ottantina. Vanni era stato tentato di chiamare la guardia medica, però Lucia stessa gli aveva detto di lasciar stare: ci avrebbero pensato il mattino dopo, se già una buona tisana e una notte di sonno non avessero provveduto a rimetterla in sesto.

Ma quel telefono, maledizione!… Non accennava a placarsi. Doveva essere qualcosa di veramente urgente.

Se avessero avuto figli, allora avrebbe pensato senz’altro a qualche preoccupante emergenza da parte loro; ma non avendone, proprio non gli riuscì di immaginare chi potesse chiamarlo quando ancora non si vedeva un solo pallido accenno di luce filtrare tra le fessure delle tapparelle.

Di malavoglia, facendo appello a tutte le forze che il suo corpo ossuto poteva racimolare dopo quel brusco risveglio, Vanni spinse le gambe fuori dalle coperte, infilò i piedi nelle pantofole – che metteva sempre nello stesso punto, così da ritrovarle subito con geometrica precisione, anche senza vederle – e si consegnò all’aria fredda che gli gelò il velo di sudore fra pelle e pigiama.

Il percorso fino alla porta era un tragitto sicuro. Otto passi (tre a destra, ancora tre a destra, e due a sinistra). Quindi allungò la mano, e la maniglia ripose fedele alla sua stretta. Aprì, scivolò nel corridoio, e subito si richiuse la porta alle spalle, prima che un nuovo trillo si infilasse nel pertugio per volare addosso a Lucia e strapparla al sonno.

Ora il suono era decisamente più forte, e Vanni lo sentì rimbalzare dentro il cranio, da un lato all’altro, come una pallina di gomma. Sbuffando, avanzò di cinque passi facendo strisciare i polpastrelli della mano destra lungo la parete (non troppo in alto, per evitare di colpire un quadretto posizionato esattamente a metà del percorso). Una volta raggiunto  il salottino, lasciò che le dita trovassero l’interruttore, schermandosi con l’altra mano gli occhi per proteggersi dal giallore elettrico che gli piovve addosso dal lampadario. Subito sprofondò nella sua poltrona. Accanto al tavolino rotondo. Quello sul quale il grosso telefono grigio lo stava chiamando. Gli squilli lo rintronavano, doveva interromperli all’istante. Sollevò ansante la cornetta e se la portò all’orecchio.

«Sì, pronto…?» rantolò.

All’altro capo udì dapprima solo un fruscio ronzante. Attese qualche istante, poi riprovò: «Pronto? Chi è?»

Allora, in mezzo al brusio crepitante generato da un disturbo sulla linea, si fece strada una voce. Confusa, all’inizio. Quasi impercettibile. L’uomo aggrottò la fronte, stringendo più forte la cornetta come se la pressione delle dita potesse migliorare la qualità della comunicazione.

«Vanni… caro…» udì. «Sono io…»

Il cuore mancò un battito. «Pronto?» disse ancora, sentendosi inevitabilmente stupido. «Chi parla?» Una parte del suo cervello – quella che solitamente non gli piaceva ascoltare, perché aveva quasi sempre ragione – aveva riconosciuto quella voce. Però non era possibile. Nella maniera più assoluta, non era possibile. Per cui, rimase aggrappato con tenacia al proprio lato più razionale, nonostante lo sentisse particolarmente fragile, a quell’ora della notte.

Ma il soffio freddo della paura articolò due semplici parole che la cornetta scoccò a trafiggergli il cervello. «Sono Lucia».

A quel punto Vanni si ingobbì sulla poltrona, afflosciandosi come un sacco di sabbia gettato in un angolo. «Cosa… come…?»

Tra le scariche elettrostatiche, la voce di donna all’altro capo continuò a infierire, seppure con infinita dolcezza. «Sono Lucia, amore. E sono morta. Mi dispiace. Davvero tanto, mi dispiace. Ma ti volevo parlare un’ultima volta. Ti volevo avvisare…»

Vanni aprì e richiuse le labbra più volte, sentendosi immerso in un’aria sempre più densa. Un calore innaturale aveva costretto ogni poro della sua pelle a secernere goccioline che all’istante si rappresero in una patina ghiacciata. La poltrona oscillava, e ruotava. E la cornetta che gli si era incollata addosso, fra mano e orecchio, aspettava che la sua lingua formulasse una frase, qualcosa di pertinente, qualcosa di ragionevole. Ma la sua mente si aveva smesso di collaborare.

«Non… non puoi… essere tu…» balbettò. «Tu sei… di là, a letto…»

La voce (la voce di Lucia, inconfondibilmente) non ebbe esitazioni: «Là c’è solo il mio corpo, ma tu non ti devi fidare. Quel corpo è morto. Io non sono più là dentro…»

E a quel punto accadde qualcosa che gli strappò un gemito e gli contrasse le dita artigliate a un bracciolo della poltrona.

Un rumore, dal corridoio. Un cigolio ben noto. La porta della camera da letto… Si era aperta. Qualcuno stava camminando.

In fondo, avrebbe dovuto sentirsi sollevato. Sua moglie si era svegliata, alla fine. Non avendolo trovato al suo fianco, si era alzata. Forse lo aveva sentito parlare, e adesso stava venendo a controllare. Tutto normale…

Invece, un terrore senza nome gli avvizzì l’anima.

«Non fidarti, ti dico!» incalzò la voce di Lucia dalla cornetta. «Quella che sta arrivando non sono io! Non devi guardarla! Chiudi gli occhi! Non sono io!…»

Vanni provò una fitta al torace. Tutto il suo corpo pareva intorpidito.

«Chiudi gli occhi!»

I passi in corridoio, lenti e strascicati, erano giunti quasi all’altezza della porta del salotto. Presto avrebbe visto… Chi?

«Chiudi gli occhi!»

Un fruscio di ciabatte, un respiro roco.

E a quel punto l’uomo cedette alla valanga delle emozioni. Serrò gli occhi, più forte che poté, stringendo i denti. Rimase così, immobile, la cornetta premuta contro l’orecchio, il cuore impazzito, un tremito diffuso a fior di pelle… finché un fruscio segnalò l’apparizione della donna (Lucia, doveva essere lei!) sulla soglia del salotto.

Vanni continuò a tenere le palpebre abbassate, solo vagamente consapevole di apparire patetico agli occhi della moglie. Ma l’eco delle parole iniettate in lui dalla voce al telefono non voleva saperne di liberarlo, e la suggestione di quelle ultime tre parole lo teneva prigioniero.

Passi lenti – i passi di un corpo stanco, grosso, appesantito dagli anni – gli si avvicinarono, e con essi anche quel respiro affaticato e ruvido che credeva di riconoscere. Si aspettò che la moglie gli domandasse cosa diavolo stesse mai facendo, lì, a quell’ora, attaccato al telefono, gli occhi chiusi. Era forse sonnambulo? O era uscito di senno?

Invece, a poco meno di un metro da lui, la voce di Lucia gli fece rattrappire la cute.

«Apri gli occhi».

La donna al telefono non esitò: «Non farlo, ti prego! Non sono io! Io sono morta!»

«Apri gli occhi!» ripeté perentoria la donna che si trovava davanti a lui, e che doveva essersi ingobbita per farsi più vicina. Avvertì con una punta di ripugnanza l’odore del suo alito, acre di medicinali.

«Non guardala, non sono io!»

Troppa tensione. Non avrebbe potuto reggerla oltre. Doveva decidersi. L’urlo che già da un po’ gli urgeva in gola prese corpo e forza, gonfiandosi in lui come un grosso serpente fatto d’aria e paura.

«Apri gli occhi!»

E allora a Vanni sembrò di esplodere, di infrangersi contro una cometa nera. Aprì la bocca. Uno strillo silenzioso gli graffiò le pareti interne della gola, e mentre un sibilo dentro la sua testa saliva ad altezze vertiginose non poté più trattenersi. Spalancò gli occhi, e…

Tutta la cacofonia interiore che lo aveva martoriato fino a quel momento si dissolse all’istante, e attorno a lui fu di nuovo buio, e silenzio.

Rimase in ascolto, i sensi elettrizzati pronti a captare il minimo stimolo, il minimo suggerimento. E non gli volle molto per rendersi conto di essere disteso nel proprio letto. D’istinto sporse un braccio sulla destra, incontrando subito il corpo di sua moglie. Sospirò, e sorrise. Un sogno. Non era stato che un orribile sogno. E che altro mai avrebbe potuto essere?

Mentre il cuore andava rallentando la sua corsa fece strisciare una mano fuori dalle coperte e la portò tastoni al volto di Lucia, che riposava su un fianco, rivolta verso di lui. Le accarezzò amorevolmente una guancia, e lei mugolò. Forse l’aveva svegliata. Poco male, non avrebbe faticato a riprendere sonno. Era bello sentirla ancora lì, accanto a lui. Anche la donna, lentamente, allungò una mano, raggiungendo con delicatezza il viso del marito.

Vanni continuò a sorridere, nel buio, gli occhi aperti sull’oscurità. E per non guastare quell’attimo di infinita tenerezza scacciò da sé l’idea, davvero molto fastidiosa, che la guancia di Lucia adesso fosse troppo fredda. E lo erano anche le sue dita, ruvide, secche, che adesso gli scorrevano gelate lungo la gota sinistra…

Con un fruscio di lenzuola e camicia da notte, Lucia gli si portò più vicina, nella più totale oscurità. Produsse un rumoretto risucchiante nel separare le labbra e muovere la lingua inaridita; quindi sussurrò tre semplici parole: «Apri gli occhi…»

E il cuore dell’uomo rotolò nell’abisso.