di Cristina Bargero
L’evoluzione nell’ultima settimana della vicenda Ilva, con le sue deflagranti implicazioni per l’occupazione e l’economia italiana e alessandrina, per via dello stabilimento di Novi Ligure che oggi ha 680 addetti, ma che, se si considera l’indotto supera i mille posti di lavoro, ha origini in realtà più lontane.
Era il 26 luglio 2012 quando la procura di Taranto sequestrò l’impianto cittadino “per gravi violazioni ambientali”, definendo la fabbrica “fonte di malattia e di morte”.
Nel giugno 2013 vi fu il commissariamento, per poi passare all’amministrazione straordinaria (con commissari) per proseguire l’attività della più grande acciaieria d’Europa, che i Riva nel 1995 acquistarono da IRI. Infatti ILVA allora faceva parte della grande famiglia delle partecipazioni pubbliche.
Correva l’anno 1961 quando Acciaierie di Cornigliano si fusero con l’ILVA – Alti Forni e Acciaierie d’Italia, creando Italsider. Lo stabilimento di Taranto venne inaugurato nel 1965 nel quartiere Tamburi, dove un tempo abitavano le famiglie dei dipendenti degli impianti ferroviari. Dopo il commissariamento sono stati chiusi gli altiforni 3 e 5 e l’aggiudicataria Arcelor si era impegnata ad accompagnare al piano industriale un piano di risanamento ambientale con alcuni interventi urgenti, quali, ad esempio, la copertura dei parchi minerali, in modo da ridurre le emissioni atmosferiche.
L’investimento per il piano ambientale e la bonifica, quindi, dell’impianto si aggira intorno a 1,15 miliardi di euro e proprio per gli elevati costi è possibile solo con il mantenimento del sito produttivo, e la sua riconversione orientata all’innovazione e alla tutela dell’ambiente.
La vicenda Ilva pone, tuttavia, una questione di fondo, che troppo a lungo è stata sottovalutata (si consideri la proprietà pubblica di Italsider fino al’95) da tutti, ossia il rapporto tra salute e lavoro.
Per anni e ancor oggi purtroppo è risultato antinomico. Durante il boom economico si era concentrati sull’industrializzazione di massa, e gli effetti dannosi di molte produzioni sulla salute erano ignorati da lavoratori e cittadini.
In tempi più recenti il lavoratore si è spesso trovato di fronte a un ricatto tra la scelta di avere un‘occupazione e il diritto alla salute e alla sicurezza.
Il caso tristemente noto nel nostro territorio è quello dell‘amianto. Nel 1986 è stato chiuso lo stabilimento Eternit di Casale Monferrato e solo la successiva legge 257/1992 ha messo al bando a partire dal 1994 l’estrazione, la lavorazione e l’utilizzo dell’amianto, grazie a una incisiva azione di sindacati e istituzioni locali.
Salute e lavoro invece sono due diritti che non dovrebbero essere in contrapposizione, ma viaggiare a braccetto, entrambi garantiti costituzionalmente rispettivamente dall’art. 32 e dagli articoli 4 e 36.
Modalità di produzione compatibili con l’ambiente oggi sono possibili grazie alla tecnologia e consentono alle aziende di essere competitive, richiedendo certo qualche investimento in più.
La forza di una democrazia è anche questa, rendere possibile la realizzazione effettiva di tali diritti.