a cura di Angelo Marenzana
Napoli, maggio 1938. A pochi giorni dall’attesa visita del Führer, tre ragazze cadono vittime di un tagliagole. L’omicida ha lasciato sui loro corpi incisioni incomprensibili e sulla scena del crimine un messaggio altrettanto misterioso. E a dipanare l’enigma ci pensa il bel romanzo di Lidia del Gaudio, napoletana, amante di musica e libri e ospite dell’appuntamento domenicale di Allibri con il suo Il delitto di via Crispi n.21 (edito da Fanucci Editore nella collana Nero Italiano). Le indagini vengono affidate al commissario Alberto Sorrentino forte di un’esperienza maturata sei anni prima nel risolvere casi simili ma al tempo stesso costretto a fare i conti con un passato invadente. E così Lidia del Gaudio, insieme ai suoi personaggi, ci accompagna attraverso “una Napoli vecchia che trasudava fantasmi. Era la sua storia lunga e complessa, ad averli creati. E così le tante leggende. Non esisteva palazzo, basilca, anfratto che non ne nascondesse una.” Il percorso invesigativo che porterà il protagonista alla soluzione del caso verrà sollecitato dalle forti pressioni degli apparati di regime visto che una delle vittime era tedesca e lavorava in una rivista legata alla gioventù hitleriana. La situazione peggiora quando, alla serie di delitti, se ne aggiunge un quarto eseguito con le stesse modalità, ai danni di un giovane universitario. Mentre un agente dell’OVRA cerca di nascondere l’identità di una delle vittime.
Il delitto di via Crispi n. 21 è un romanzo ricco di tutti quegli elementi necessari per ben rappresentare la letteratura di genere, ma è altresì capace di evocare le atmosfere dell’Italia prebellica (“nei pressi di via Costantinpoli trovò gruppi di popolo in marcia per la sfilata, sciamavano nella direzione del mare, tra bandiere e vessilli che gli parvero simboli troppo cupi per quello sfondo azzurro splendente.”) e allo steso tempo di fare luce su uno spaccato di storia del secolo scorso, il cui fantasma ancora aleggia sullo sviluppo di tanti avvenimenti dei nostri giorni.
Un romanzo non abituale per una firma tutta al femminile e alle cui tematiche personalmente mi sento molto vicino.
Buona lettura.
Appena varcato il portone di palazzo Caracciolo di Santobuono, in via Carbonara, pensò di trovarsi a bordo di qualche nave della Real Marina del Regno delle due Sicilie, dove fosse stato messo in atto il famoso ordine del facite ammuina: gente che si spostava da destra a sinistra e da sinistra a destra, su e giù per le scale con frenesia, inseguendo ordini ipotetici che lui non era certo in grado di comprendere.
La confusione era tale che non riuscì neppure a godersi lo spettacolo di quelli della milizia che si sbattevano sudati in giro con le carte in mano per dare senso alla loro esaltazione di quei giorni. Dovevano essere al settimo cielo, pensò, e cercò di tenersi alla larga da eventuali scontri fisici, districandosi in una specie di gimcana per non perdere di vista De Gennaro che precedeva.
Il vicebrigadiere, piuttosto a suo agio, invece, lo guidò fino a un ufficio del secondo piano, senza targhe che indicassero il nome dell’occupante, bussò alla porta con discrezione, aprì uno spiraglio e vi si infilò per dare conto a chi stava all’interno che erano arrivati. Ricevuto segno di procedere, spalancò le due ante e rimase spiaccicato da un lato come una lucertola in cerca di sole, facendo segno a Sorrentino di entrare. Richiuse poi con garbo e attese in corridoio.
Nell’ufficio la luce era schermata da pesanti tende amaranto e l’aria odorava di sudore e tabacco. Nonostante il tizio corpulento e stempiato che occupava la scrivania stesse urlando al telefono, a Sorrentino la stanza parve un’oasi di pace, una specie di cappella gentilizia dentro cui dimenticare il mondo caotico fuori.
«E quindi? Non venitemi a dire che ce ne dobbiamo sbattere pure di questo!» Mentre sbraitava l’uomo fece segno a Sorrentino di accomodarsi su una delle due sedie imbottite che completavano l’arredamento. «Che, non dico in anticipo, ma almeno nei tempi giusti, no?…» Il dialogo proseguì muto per qualche istante, poi, dopo aver protestato ancora con veemenza, l’uomo salutò poco convinto l’interlocutore al telefono e sbatté la cornetta sull’apparecchio. Sorrentino lo vide afflosciarsi sui braccioli come un palloncino sgonfio: la rabbia pareva essergli sbollita tutta assieme.
«Le battaglie contro i mulini a vento, come si fa! Finisce che nemmeno per gennaio prossimo avremo una sede adeguata. Efficienza qui, efficienza lì, e poi si scopre che mancano i materiali… Ma tanto chi siamo noi? Che fa se ci cacciano da qua come ci hanno cacciato da palazzo San Giacomo o se non sappiamo più dove piazzare la gente?» disse, quasi a cercare sponda per le sue ragioni. Poi si ricordò che il nuovo arrivato non lo conosceva e aggiunse: «Comunque, benvenuto. Sono il colonnello Angelo Massari, Ispettore Generale di seconda classe.»
Sorrentino, che nel frattempo si era seduto, fece per rimettersi in piedi, ma l’altro lo stoppò: «Comodo, comodo» indicandogli di nuovo la sedia. Sorrentino ubbidì, mentre faceva a memoria una rapida trasposizione dei gradi. Si trovava di fronte a uno dei questori, dunque, il quale stava sotto all’Ispettore Generale di prima classe, come ovvio. Nel caso specifico, un generale maggiore. Ma figuriamoci se un maggiore generale si sarebbe degnato di parlare con lui. E per fortuna. In realtà non si aspettava nemmeno che lo ricevesse l’Ispettore di seconda classe.
«Voi certamente siete il commissario…»
«Dottor Alberto Sorrentino» rimarcò Sorrentino un po’ a disagio, senza cordialità, chiedendosi dove sarebbero andati a parare.
«Bene.» Il colonnello annuì un paio di volte. «Sono io che ho insistito per il vostro trasferimento. Immagino che vi abbia fatto piacere…» Sottolineò le ultime parole con uno sguardo ironico, aprì un cassetto e tirò fuori una scatola di legno piena di Toscani. Gliela porse aperta, ma Sorrentino rifiutò con un movimento del capo.
«Trasferimento provvisorio, se non erro» ci tenne a ribadire.
Il colonnello alzò le spalle. «Per il tempo che ci vorrà» precisò a sua volta. Prese un sigaro e armeggiò prima con le tronchesine poi con un accendino dorato. Tirò una boccata voluttuosa di fumo. «Dunque, ho letto il vostro stato di servizio. Diciamo anzi che in questi giorni di bordello ho dovuto leggere lo stato di servizio di un sacco di gente.» Il colonnello parlava senza particolari inflessioni dialettali, ma di certo non sembrava uno del posto. «E sapete che cosa mi ha colpito del vostro?» chiese.
Era davvero un comportamento poco usuale, quello, un incontro solitario faccia a faccia, quasi come se stesse ricevendo un vecchio amico, pensò Sorrentino senza smettere di speculare su ogni espressione, ogni parola, ogni alzata di sopracciglio, in cerca del suo destino prossimo.
«No, colonnello, che cosa?» chiese però senza dare l’idea che gli importasse davvero saperlo.
Il colonnello tamburellò ancora per qualche istante sul piano della scrivania, poi aprì un fascicolo che stava in cima a una montagnola di altri fascicoli, fingendo di interessarsene in silenzio, lo spinse via e alzò la testa contornata da volute di fumo azzurre. «Bah, lasciamo perdere le cartacce. Insomma, Sorrentino, siete stato formato alla scuola tecnica di via Guido Reni a Roma, giusto?»
«Sì.»
«Risultando il migliore del corso in tecniche investigative.»
«Così pare.»
«E avete contribuito ad alcune indagini importanti. Prima di chiedere il trasferimento a Civitavecchia, s’intende.»
Sorrentino abbozzò, non per modestia, che non era il tipo, quanto piuttosto perché cominciava a intravedere in quel preambolo il preciso obiettivo di adularlo. Quando il diavolo ti accarezza vuole l’anima, pensò, e si chiese che cosa il colonnello Massari sapesse davvero di lui, visto che le parti più scabrose e interessanti non si trovavano certo annotate in uno stato di servizio.
«Nulla di eccezionale, colonnello» rispose quindi, minimizzando. «Ho fatto il mio lavoro.»
«Non vi buttate giù, sono informato di tante indagini risolte brillantemente. Pare che siate bravo soprattutto nel valutare le condotte di natura… possiamo definirle… ossessive? Che spesso rischiano di trasformarsi in azioni delittuose.»
Per un attimo Sorrentino si chiese se il colonnello non lo stesse canzonando, poi ebbe un’illuminazione.
«Ah, forse vi riferite alla faccenda del macellaio?»
«Ecco, per citarne una.»
Nella memoria del commissario si fece strada l’indagine di quel caso specifico e l’amarezza subentrata per non essere mai riuscito a stabilire la natura ambigua di quel mostro assassino. Aveva passato più di una notte insonne a chiedersi se avesse avuto a che fare col maniaco necrofilo che disgustava l’opinione pubblica oppure con un ladro truffatore che non aveva esitato a uccidere donne indifese al solo scopo di arricchirsi, usando un metodo oltremodo cruento per sbarazzarsi delle vittime.
Era iniziata col rinvenimento, a Napoli Centrale, di due valigie abbandonate su un treno proveniente da Torino Porta Nuova, che contenevano parti del corpo di una donna, avvolte in segatura e carta di giornale. Il giorno seguente, un’altra valigia con il resto del corpo era stata ritrovata a Roma Termini. Quest’ultima circostanza e le pressioni arrivate dall’alto affinché il responsabile di un crimine così efferato venisse assicurato subito alla giustizia, avevano indotto a una mobilitazione della polizia in grande stile. Sorrentino si era ritrovato a collaborare con due colleghi romani, che, manco a farlo apposta, si erano occupati, senza venirne a capo, della morte di una cameriera, restituita decapitata e mutilata dal mare di Ostia, circa due anni prima. I poliziotti romani avevano stabilito che la vittima era sola, con qualche soldo da parte, e aveva risposto a un annuncio matrimoniale.
Intuendo che il cadavere della stazione potesse essere collegato al caso di Roma, Sorrentino aveva insistito perché le ricerche si concentrassero, partendo proprio dalle risultanze di quell’indagine, su altre donne con lo stesso profilo della vittima romana. In seguito ad alcuni riscontri sugli orari dei treni e al ritrovamento di un coltello insanguinato, avevano ristretto il campo delle indagini, ma la vera svolta l’aveva data il caso. Quel colpo di fortuna che, secondo Sorrentino, non doveva mai mancare.
In questura si era presentata una cameriera che diceva di non avere più notizie di un’amica, la quale, nubile e non più giovanissima, aveva lavorato presso una ricca famiglia fino a qualche mese prima, riuscendo a mettere un bel gruzzolo da parte. Sosteneva che l’amica le avesse confidato di essere in contatto con un uomo, a suo dire molto interessante, incontrato per mezzo di un annuncio per cuori solitari e che pensava di fuggire con lui. Ma la cosa più incredibile fu che la testimone conosceva persino il nome di questo pretendente: un pensionato che aveva svolto molti mestieri, tra i quali quello di macellaio.
Il resto era venuto da sé. Sottoposto a lunghi interrogatori l’uomo aveva confessato tutto: sia la strategia con cui era riuscito a irretire le vittime, e che consisteva nel pubblicare annunci per conoscere signorine sole e agiate, scopo matrimonio, sia il modo in cui le aveva uccise e smembrate.
La censura del regime si era abbattuta feroce sulla stampa e molti particolari non erano mai stati resi noti. Tra questi la circostanza che l’uomo strangolasse le poverine durante l’amplesso e che continuasse a possederle anche dopo la morte, dissezionandone poi i cadaveri. Altre donne erano state soppresse con le stesse modalità, ma il pensionato non aveva voluto svelarne l’identità, né confessare quante fossero. Il processo si era celebrato nell’estate dell’anno seguente, senza riconoscimento di infermità mentale, secondo la teoria lombrosiana più accreditata al momento, e nel mese di ottobre quello che tutti avevano finito per chiamare macellaio era stato condannato a morte e giustiziato.
«Vi ripeto che ho fatto solo il mio dovere, colonnello» ribadì Sorrentino senza enfasi. «Sfruttando, oltretutto, alcune circostanze fortunate.»
Il colonnello parve soppesare ogni parola. «Lasciate perdere la fortuna, penso che siate proprio la persona che fa al caso nostro, invece» affermò poi convinto.