di Beppe Giuliano
Parte seconda: Sindi, l’artista della finta
«Sindi», oppure «der Papierene» – traduzione libera italiana: «carta velina» – lo chiamavano a Vienna. Aveva, sì, struttura atletica, nel senso che era alto, slanciato e che i suoi lineamenti esprimevano energia e decisione. Ma era magro, secco, asciutto in modo impressionante. Di muscoli non ne aveva, di consistenza non ne mostrava. Di profilo pareva piatto, sottile, trasparente, come se – scusate la frase alpina un po’ irriverente che viene in mente – la madre ci si fosse, per errore, seduta su appena nato. A vederlo giuocare, si trasformava. Era il padrone della palla, l’artista della finta.
Quando esordì nella «nazionale» austriaca non trovò buona stampa: troppo leggero per il combattimento, troppo etereo per l’infuocata atmosfera degli incontri dove l’Austria era la squadra da battere, allora. Durò poco la diffidenza: nello spazio di pochi mesi si trasformò in entusiasmo. «Sindi» aveva capito quello che si voleva da lui. Alla mancanza di fisico sopperì subito coll’intelligenza. Aveva appreso a smarcarsi in modo magistrale. Lasciato libero, distribuiva, smistava, dettava temi di attacco, diventava la vera intelligenza della prima linea. (Vittorio Pozzo, nel gennaio del ‘39)
Il giorno dell’infame saluto nazista, oltre a Stan Cullis mancava dal campo un altro grande campione: Matthias Sindelar.
Cartavelina, com’era soprannominato per via della sua fragilità, era uno dei più forti giocatori dell’epoca e, a leggere il poco che ancora si racconta di lui, “il suo stile richiamava quello di Johan Cruijff”.
Vittorio Pozzo, che come noto oltre che commissario tecnico della nazionale era anche inviato della Stampa, lo definì “palleggiatore di gran classe” anche se ne notava la mancanza di costanza: “è un giorno irresistibile ed il giorno seguente soggiogabile” e lo paragonò al “più giovane” Meazza, che a sua volta lo considerava un modello cui ispirarsi.
Ancora quando compì trentasei anni il direttore sportivo del suo club, l’Austria di Vienna, dichiarò: “è l’intelligenza, la volontà, la precisione personificata” e l’anno successivo, a febbraio del 1938, si scriveva di uno “straordinario rifiuto” a “trasferirsi in Inghilterra dietro offerta di ingaggio di franchi 1.750.000” del Carlton Athletic Club (offerte simili, pare, gli arrivarono pure da Arsenal e United).
Pozzo, cosa oggi impensabile, scrisse perfino la cronaca delle partite del mondiale del 1934 in cui guidava gli azzurri, e il giorno dopo la semifinale vinta contro l’Austria (allora una delle nazionali più forti al mondo) si permise un “Sindelar, sempre proclive alla commedia delle ferite”.
In verità la “commedia” aveva le fattezze del solito rude Luisito Monti, i due tra l’altro poco si sopportavano reciprocamente, che riservò al fragile campione austriaco il trattamento che spettava a chi aveva la sfortuna di incrociarlo durante la partita (ben altre erano le attenzioni che l’oriundo italo-argentino riservava in particolare ai ragazzi della primavera, secondo molti racconti emersi dall’epoca).
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L’11 marzo del 1938 sui giornali si scrive che Greta Garbo lascerà lo schermo (cosa che in realtà succederà diversi anni dopo) e si sposerà in Italia con il compositore Stokowsky; si informa che vengono tolti i sigilli dal Vittoriale, D’Annunzio è morto il primo del mese e la retorica non manca: “Egli uscì per l’ultima volta – in sembianze mortali – da queste stanze, e dietro la sua bara tutte le porte furono chiuse con sigilli stellati”. A pag. 6 La Stampa titola: “L’Austria si prepara al plebiscito di domenica”.
Voluto dal cancelliere Schuschnigg, sempre più preoccupato dalla aggressività di Hitler, anche se Italo Zingarelli scrive che “è da ritenere che non sia nelle intenzioni di Schuschnigg conferire alla consultazione di domenica carattere polemico e meno che mai quello di un gesto che sia in un certo senso ostile per il Reich tedesco” evidentemente i nazisti la pensavano diversamente.
Il giorno dopo si legge infatti delle sue dimissioni e “il nuovo Cancelliere chiede a Hitler l’invio di truppe per il mantenimento dell’ordine”.
È l’Anschluss, l’annessione del paese alla Germania nazista. Il 10 aprile un nuovo plebiscito, questa volta voluto da Hitler, sancirà il “gradimento” degli austriaci. Una settimana prima si “celebra” con la partita di calcio tra le due nazionali, il Wunderteam destinato a una specie di ultimo valzer, prima di dare i suoi migliori giocatori alla nazionale del Reich. Cartavelina Sindelar domina, con la sua classe eccezionale, segna l’1-0 e ispira il gol del raddoppio. Non fa il saluto nazista quel giorno e non giocherà mai con la maglia del paese occupante.
“Ultimamente, dopo l’annessione ed il ritorno al dilettantismo, aveva aperto un caffè a Vienna, al quale dedicava ogni sua cura, più non avendo che pochissimo tempo a disposizione per l’allenamento. Per la sua società, però, l’«Austria», egli continuava comunque a giuocare come ala destra”.
Questo leggiamo a gennaio del 1939, con l’annuncio della sua morte prematura e, a tutt’oggi, misteriosa. Lo trovano una mattina, insieme alla compagna Camilla Castagnola. Avvelenamento da monossido di carbonio, fuoriuscito da una stufa difettosa, la versione ufficiale cui ancora molti non credono.
Sindelar era pure di origine ebraica, come Camilla, secondo i nostri giornali conosciuta nell’ospedale milanese in cui l’aveva mandato Monti dopo la semifinale mondiale, “ex infermiera” o, a leggere Avvenire, insegnante nel liceo, mentre Kuper la definisce più prosaicamente “un’ex prostituta”.
Non è morto da eroe – scrisse ancora Pozzo, che dà l’impressione di dubitare lui stesso della versione ufficiale – questo idolo delle folle danubiane. Pare che strida, che urti col senso morale, il fatto che un uomo ammirato, idolatrato per le sue virtù atletiche ed artistiche, muoia nelle braccia di una donna o, per lo meno, per mano od in compagnia con una donna. Eppure la cosa è così umana, che la folla che lo ha tanto amato gli perdonerà anche questo suo modo di allontanarsi dalla vita. È stata l’ultima sua «finta».