I ragazzi dell’estate [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

 

In un paese senza storia, come sono gli Stati Uniti, il “meraviglioso gioco del baseball” (per citare Elio e Faso), quello che una volta era il passatempo nazionale – “American pastime” appunto – ha per molto tempo raccontato meglio di ogni altra cosa il quotidiano.

Vale la pena ricordare i tempi romantici in cui i Dodgers di Los Angeles erano il cuore, l’anima e la più grande passione del quartiere di Brooklyn.
Il quartiere della grande commistione di razze, tra cui tantissimi italiani andati a cercare fortuna in America.
Sì, il quartiere che si raggiungeva attraversando il famoso ponte, quel ponte di Brooklyn che è un’immagine iconica di tantissimi film.

La follia “transpontina” è stata citata tante volte: addirittura i giornali negli  I ragazzi dell’estate [Lettera 32] CorriereAl 1 anni cinquanta ruotavano i cronisti che seguivano i Dodgers, perché chi stava troppo vicino a loro finiva inesorabilmente per innamorarsene. Come scrisse Roger Kahn, “puoi gloriarti del trionfo di una squadra, ma ti innamori di una che perde.”

Roger Kahn è nato novant’anni fa, proprio alla fine di ottobre. Il suo ‘The Boys of Summer’, un vero atto d’amore per la squadra di Brooklyn degli anni cinquanta, e insieme un’elegia della giovinezza, è uno dei più bei libri sul meraviglioso gioco.
Quella dei ragazzi dell’estate era la squadra in cui giocava “il duca” Snider. Già, proprio l’eroe citato in terapia da Portnoy nel romanzo di Philip Roth (lo scrittore a cui anche quest’anno non han dato il Nobel): “…like my king of kings, the Lord my God, The Duke Himself (Snider, Doctor…”.

La squadra che, con un’ennesima sconfitta, guadagna (molte) fantastiche pagine di un altro grande romanzo della letteratura americana, ‘Underworld’ di Don DeLillo che inizia appunto in una di quelle giornate rimaste nella storia del gioco del baseball, e che ansia ci trasmette DeLillo nel racconto della nervosa attesa di un evento che segnò la vita dei presenti e gli anni cinquanta americani.

“C’è un uomo nella dodicesima strada a Brooklyn che ha collegato un registratore alla radio in modo di registrare la voce di Russ Hodges che commenta la partita. L’uomo non sa perché lo sta facendo. È solo un impulso, un capriccio, è come sentire la partita due volte, è come essere giovani ed essere vecchi allo stesso tempo, e questa sarà l’unica registrazione conosciuta del famoso commento di Russ del finale di partita.” (…)
Dice: – I Giants vincono il campionato.
Quattro volte. Branca si gira, raccoglie il sacchetto e lo sbatte per terra, poi si dirige verso gli spogliatoi, le spalle curve – inizia la lunga marcia mortale”.

Anche Roger Kahn racconta, chissà con quanta sofferenza, quella battuta finale, I ragazzi dell’estate [Lettera 32] CorriereAl 2quel “shot heard ‘round the world”, il colpo sentito in tutto il mondo con cui i grandi rivali dei Giants sconfissero i Dodgers eliminandoli nel 1951, e particolarmente bello è il passaggio dedicato al lanciatore battuto appunto dal fuoricampo vincente:
“…tornò alla sua Oldsmobile dove la fidanzata, la bionda Ann Mulvey, lo aspettava con Padre Frank Rowley di Fordham.
“Perché io?” Branca disse all’interno dell’auto. “Io non fumo. Non bevo. Non vado in giro per locali. Il baseball è tutta la mia vita. Perché io?”
“Dio ti ha scelto,” rispose il prete, “perché Lui sa che hai fede e forza sufficiente per portare questa croce.”
Branca annuì e si sentì un po’ meglio.”
Puoi gloriarti del trionfo di una squadra, ma ti innamori di una che perde.

Brooklyn, essendo piatta, estesa e popolata, fu una delle prime roccaforti del trasporto coi tram (ci rifacciamo anche qui, e sovente, a Kahn). Per sopravvivere in Brooklyn uno doveva essere “a dodger of trolleys”, uno schivatore di tram.
Ed ecco il nome della squadra, i Dodgers di Brooklyn.
Che giocavano a Ebbets Field, un impianto nella zona di Flatbush tra Bedford Avenue, la strada (lunga sedici chilometri) che corre dietro al compianto ma ben ricordato campo esterno destro, e Sullivan Place. Zone in cui convivono casette monofamiliari e l’edilizia popolare, e abitanti originari di un po’ tutto il mondo (il quartiere di Brooklyn negli anni cinquanta, sua massima crescita, superò i due milioni e settecentomila abitanti e quelli di origine italiana sono ancora oggi oltre centocinquantamila).
I ragazzi dell’estate [Lettera 32] CorriereAlEbbets Field fu demolito il 23 febbraio 1960. La foto simbolo di quel giorno la scattò il fotografo del ‘New York Times’, ma non venne pubblicata.
Riproduce Roy Campanella, sulla sedia a rotelle cui è appoggiata la sua maglia numero 39 e una mazza. Sullo sfondo le gradinate in esterno sinistro, dove molti suoi fuoricampo erano atterrati.
Campanella, figlio di un italiano e di un’afroamericana, era stato il secondo giocatore di colore ingaggiato dai Dodgers, nel 1948. Il 24 settembre 1957 aveva partecipato alla partita contro Pittsburgh, l’ultima a Brooklyn prima del trasferimento, quel giorno probabile ma non ancora certo, a Los Angeles deciso dal proprietario Walter O’Malley.
Giocarono in un Ebbets Field deserto, poco più di seimila gli spettatori. In California con i Dodgers di Los Angeles Campanella non giocherà mai, perché nell’inverno la sua automobile slittando sulla strada ghiacciata, a Long Island, andò a urtare un palo del telefono, lasciandolo paralizzato dalle spalle in giù.

I muri di Ebbets Field furono quindi buttati giù nel 1960. Li, solo tredici anni prima, i Dodgers di Brooklyn avevano contribuito ad abbattere un muro (anzi per dirla con l’espressione di solito usata, una “barriera”) ben più alto e resistente.