di Angelo Marenzana
Come succede ogni volta che pubblico qualcosa di nuovo, approfitto dello spazio domenicale di AlLibri (con la silenziosa complicità del direttore della testata) per autocelebrarmi con i lettori offrendo loro uno stralcio del nuovo lavoro. È di venerdì scorso l’uscita in ebook per le Edizioni Algama (con cui ho già pubblicato La scelta del Caporale e Hotel Moresco) del nuovo romanzo (breve) Buchi neri nel cielo.
Il protagonista si fa chiamare Gaspàr, un uomo in fuga da vent’anni. La sua pelle è indurita dal sole e dalla solitudine, dai ricordi di un passato che credeva sepolto ma con il quale non ha chiuso in maniera definitiva. È un fuggiasco su cui ancora pende un’accusa di terrorismo. Nonostante sia un uomo che vorrebbe solo nascondersi qualcuno lo ha trovato. È sotto scacco. Costretto a tornare in Italia per via di un pesante ricatto da parte di poliziotti corrotti. Gli mettono in mano una pistola, un obiettivo da colpire e nessuna spiegazione. In più Gaspàr deve fare i conti con l’attrazione improvvisa per Amelia e con la diffidenza dei due vecchi amici, Roberto e Sonny.
Buona lettura con il primo capitolo.
1
Non fa sempre caldo nel Madagascar. Nonostante quello che si crede. Forse ingannano le immagini pubblicitarie di un mare limpido e del cielo terso, in contrasto con le pelle scura delle donne che attraversano lunghe spiagge bianche per raggiungere i loro villaggi. Di notte piove in questi giorni, e il mattino pizzica nell’aria l’odore di vaniglia e di ylang ylang. Però di giorno si suda molto e anche adesso, svegliandomi di soprassalto, mi accorgo di essere completamente madido. Respiro a bocca aperta e l’arsura mi brucia in gola. Forse è tutta colpa della botta di sonno dovuta all’aria che ristagna nel bus. O magari per aver riaperto gli occhi con il pensiero dell’ultimo incontro avuto con il mio avvocato.
Butto giù una sorsata di acqua minerale cercando di non farmi travolgere da quella specie di incubo che mi tiro dietro da un paio di giorni. Con la rabbia che mi rode l’intestino ogni volta che ripenso alla nostra chiacchierata.
Ricordo il suo sorriso sornione, appiccicato sotto quei baffetti lucidi da intrattenitore da night per turisti in cerca di avventura, mentre mi diceva che non poteva darmi nessun’altra garanzia per il mio futuro se non quella che mi aveva appena prospettato. E non era poco. Secondo lui. Qualunque mia scelta diversa sarebbe stata quanto meno azzardata e irresponsabile, e non avrei potuto contare su nessun altro perché lui non avrebbe mosso un dito per darmi una mano. Lui, l’esimio avvocato Alfred Villiers, tutto quello che aveva potuto fare per me l’aveva già fatto. Oltre non poteva andare. E aveva continuato a fissarmi con un sorriso che sembrava volermi stampare a tutti i costi negli occhi magari per darmi fiducia e costringermi a guardare la situazione solo attraverso il suo punto di vista.
«In fondo, se lei ci pensa bene, la sua situazione non è così drammatica».
Secondo lui doveva bastarmi la parola del giudice che assicurava di non mettere mano alla mia pratica per i successivi sette giorni. E questo era già un ottimo risultato perché fra firme, bolli e registrazioni mi potevo prendere la libertà di muovermi come meglio credevo prima che qualche poliziotto malgascio fosse autorizzato a mettermi le manette ai polsi.
Quattro, cinque giorni per raccogliere baracca e burattini e lasciare l’isola per sempre. Almeno sono libero. Nervoso e incazzato. Ma libero. Mica tutti i fuggiaschi godono di questo privilegio. Quasi tutti si trovano con la polizia addosso quando meno se lo aspettano. Invece nel mio caso era la polizia che aspettava i miei comodi. Quindi: cosa mi aspettavo di meglio per organizzarmi e sparire dalla circolazione? Avevo un’occasione in più rispetto alle migliaia di galeotti che sono chiusi dietro le sbarre perché nessuno si è offerto di dar loro una mano.
Ok, gli ho risposto guardandolo male. Forse anche qualcosa in più. Credo che abbia respirato tutto l’odio che trasudava dalla mia pelle. E così ha cambiato modo di fare. Ma credo che l’abbia fatto solo per paura che un atteggiamento del genere potesse precludergli la possibilità di prendere la sua parte in contanti.
«È tutto quello che posso fare per lei, mi dispiace se le cose non sono andate come avrebbe voluto…» mi ha detto alla fine buttando di fronte a me un biglietto aereo per Lisbona e un passaporto austriaco intestato a Kaspar Waida, residente a Vienna. Un nome facile da ricordare. Il mio, quello vero, è Gaspare Maida. Spero solo che a guardarmi in faccia qualcuno ci creda davvero che sono cittadino austriaco. «…gli affari sono affari, e se gli affaristi di questo paese vogliono avere commesse dal governo italiano, soprattutto nel settore turistico, la gente come lei deve pagare i debiti con la giustizia di casa sua».
Roba già sentita.
Ho guardato il mio avvocato senza interesse mentre concludeva la sua litania. È uno che ha sempre sguazzato nel torbido e non mi sono mai fidato tanto di lui. Ma, nella mia situazione, non potevo permettermi altro.
Ho messo i soldi che gli dovevo sulla scrivania e sono uscito dal suo studio facendo rapidamente le scale e l’elenco mentale delle cose da tirare insieme prima di scomparire in tutta fretta.
Pensavo che sulla mia vecchia questione fosse calato l’oblio. Non se ne parlava più da anni, invece i nuovi volti del business africano hanno riaperto questa ferita per proteggere i loro interessi. E la polizia e i cavilli burocratici sono tornati a darmi la caccia. Forse il destino della globalizzazione è quello di aprire le porte di tutte le galere in qualunque angolo del mondo ti trovi.
Ho scelto io di andarmene in Portogallo. Gliel’ho chiesto espressamente all’avvocato di farmi avere un biglietto aereo per Lisbona. Sono contento dopo tutti questi anni di poter risentire odore d’Europa.
Mi stiracchio. Ogni centimetro di pelle sembra invaso dalle formiche.
Porto con me solo un piccolo bagaglio a mano con lo stretto necessario, e in tasca ventimila dollari ricavati dalla vendita della mia attività. Minerali. Nel mio negozio a Tamatave vendevo minerali ai turisti che andavano sulle spiagge dell’oceano Indiano dopo aver attraversato savane verdeggianti e fotografato gruppi di lemuri. Dalla rivoluzione fallita al commercio di minerali. Non ho mai visto un legame tra queste due cose ma ho saputo adattarmi.
Ho venduto il negozio tappezzato, come l’interno di quasi tutte le case di quel posto, con pagine di giornali e poster di calciatori. Lo ha comperato un italiano che abitava nel mio stesso quartiere e che mi faceva il filo da tempo per prendersi tutto quanto. Era pronto a pagarmi in contanti e subito. Con la fretta che avevo di concludere, l’affare è riuscito a combinarlo solo lui. E non ha fatto domande sul mio improvviso cambiamento di programma. Si chiama Sacco. Beppe Sacco. Si è rifugiato da queste parti con l’idea di cambiare aria dopo che un controllo a un posto di blocco in un paesino alle porte di Milano è andato a finire male. Lui aveva un po’ di roba addosso e non si è fermato all’alt. Il carabiniere ha esagerato, anche perché lo aveva riconosciuto, e sapeva che Sacco era un balordo ma non un tipo troppo pericoloso. E gli ha sparato un paio di colpi. Uno ha centrato un albero. L’altro gli ha trapassato una natica e fatto scoppiare un testicolo. Il giudice ha voluto chiudere un occhio pensando forse che vivere senza un testicolo fosse già una pena sufficiente per qualunque uomo, e ha dimostrato clemenza.
Non ho altro con me. Un mazzetto di dollari, qualche paio di mutande, due camicie e un pezzo di sapone. Quarantadue anni, capelli brizzolati, e la pelle indurita dal sole e dalla solitudine. E neanche una foto. A volte mi guardo allo specchio e penso di essere un bell’uomo. Ma certo non posso fare affidamento sugli affetti. Nemmeno uno, non mi è rimasto neanche un familiare. Qualche donna, sempre per brevi periodi, mai una famiglia. Di figli neanche a parlarne. Non riesco a immaginarmi la presenza di qualcuno al mio funerale.
Nel Madagascar pensavo di aver trovato un punto fisso, ma adesso tutto ricomincia. Di nuovo fuggiasco. Di nuovo straniero in qualunque porto io vada ad approdare.
Sono partito di mattina presto senza voltarmi indietro, e senza salutare nessuno. Ho preso il bus in una piazza affollata di gente e bagagli, dove l’odore di motori, scarichi, asfalto e piscio si attaccano in gola come carta moschicida.
Guardo fuori dal finestrino. Carretti e zebù. Pipistrelli appesi all’ingiù, in piena luce, sotto il sole, contro ogni teoria sul vampirismo, grondano dalla cima degli alberi come pendagli divinatori di qualche antica religione.
Scorrono come giganti immobili le mangrovie dal tronco lucido e pelato che accarezzano il cielo con i loro cespuglietti di foglie sulla cima dei rami. E poi squarci di oceano che filtrano tra la vegetazione aspra, la terra rossa, e l’azzurro opaco del cielo carico di calore e di pioggia che vuole esplodere da un momento all’altro.
Quando scendo dal bus mi assale un forte brusio.
L’aeroporto sembra vivere di vita propria, con il sottofondo del frastuono dei velivoli in manovra. Fuori, tra gli ingressi e l’area posteggi, uomini di tutte le età si offrono per lustrare scarpe, vendere sigarette, chewing-gum, biglietti della lotteria, caramelle, dolci arrostiti, accendini, giornali e lattine. Donne che vendono tovaglie ricamate stando in piedi e porgendo il loro prodotto come pezzi di doti matrimoniali, banchi in legno carichi di banane e cetrioli. In mezzo a loro si muovono veloci come anguille dei bambini a piedi nudi, continuamente alla ricerca del colpo giusto per rimediare la giornata. I soliti poliziotti che ovunque si portano dietro le stesse facce incarognite circolano con la mano sul manganello, a due a due stretti dentro divise nere impolverate e lise.
Trascorro il tempo d’attesa mangiando yogurt, e riso con salsa di arachidi. Altri attorno a me stanno bevendo, e bevono pure molto, soprattutto vino di palma, gustoso e forte, che annebbia i loro sguardi. Poco più in là un negro spegne la sigaretta, con gli occhi arrossati dall’alcool e dalla stanchezza. Ha la pelle del viso lucida come uno specchio per colpa del sudore. La sua corporatura atletica aderisce alla camicia a rete nera. Mentre cerca una posizione più comoda tira un lungo rutto, ruvido e sgradevole. Si lascia cadere in avanti e appoggia il mento tra le mani.
Poi la notte cala pesante, con un buio senza luna.
Il mio volo comunque è puntuale. Lisbona è a quattro ore di viaggio. La mia porta sull’Europa.