Alessandria si stupisce del gelato. Ma non riesce a guardare oltre il cortiletto di casa, fra città assente e una classe dirigente in cerca di identità [Centosessantacaratteri]

di Enrico Sozzetti

 

 

C’è chi grida allo scandalo, chi accusa la pubblica amministrazione, chi lamenta la costante perdita di identità. Due vicende apparentemente lontane e diverse dovrebbero invece fare riflettere. Ad Alessandria il negozio di Grom annuncia la chiusura, mentre Lurisia (la sede è nell’omonima frazione di Roccaforte Mondovì) viene venduta alla Coca Cola.

I gelati inventati da Guido Martinetti e Federico Grom lasciano Alessandria solo perché la città è in crisi? Difficile crederlo. Piuttosto stanno cambiando in modo sempre più veloce le logiche commerciali e di marketing di una società che appartiene alla multinazionale Unilever.

Grom è diventato da tempo un marchio funzionale per consolidare la presenza dove esiste già (e funziona) ed entrare in altri, e nuovi, mercati. Il negozio di Alessandria è uno dei circa trenta presenti in Italia, cui si aggiungono tredici punti vendita all’estero (dalla Francia all’Inghilterra, dal Portogallo agli Stati Uniti, dall’Estremo Oriente alla Cina). Per rimanere aperti sono richiesti standard economici cui Alessandria probabilmente non rispondeva più. Sui giornali si legge di un comunicato della società che sostiene che la città «è in crisi dal 2012» e quindi ha deciso di lasciare. Erano arrivati solo un anno prima, pieni di entusiasmo. Scelta sbagliata? Avventata? Oppure, molto più banalmente, le dinamiche di mercato di Alessandria non rispondono più (non per colpa di una crisi bensì degli implacabili parametri finanziari) a quelle, molto rigide, di una multinazionale?

Stesso discorso per Lurisia, con la Coca Cola che compra dai tre soci che detenevano la proprietà: il gruppo Eataly, la famiglia Invernizzi e il fondo di private equity IDeA Taste of Italy. Un’azienda così ‘Made in Italy’ cede all’improvviso, per 88 milioni di euro, alla multinazionale di Atlanta? Anche in questo caso, difficile crederlo. Forse c’è stata, al contrario, l’opportunità di uscire dal business a ottime condizioni, forse c’erano altre ragioni. Chissà. Resta il fatto che oggi sui mercati si resta solo se la solidità che si dichiara è reale.

Ad Alessandria, per tornare a Grom, c’è chi si lamenta per la perdita e incolpa il Comune oppure la grande distribuzione. Insomma, è sempre più facile gettare la croce su altri, invece di capire cosa succede ogni giorno in un capoluogo ormai privo, da tempo, di un tessuto sociale solido e di una classe dirigente capace davvero di vedere come gira il mondo. Senza dimenticare che alcuni fenomeni economici restano incontrollabili a livello locale. Gli insediamenti dei centri commerciali avvengono non per miracolo o in modo clandestino, ma semplicemente perché le norme lo consentono. Sono leggi che qualcuno ha scritto e poi approvato alla luce del sole. Però sono stati in pochi a capire quali conseguenze potevano comportare. Inoltre chi oggi apre (e magari a medio termine chiude perché la sostenibilità economica non c’è più) lo fa non tanto perché c’è un florido mercato locale, bensì per occupare uno spazio, arrivare prima di altri, rafforzare presenze funzionali a un disegno di sviluppo in cui l’area locale è strumentale e basta.

Una comunità locale forte, una classe dirigente (pubblica e privata) autorevole e competente dovrebbe essere sempre sul pezzo, sempre pronta a individuare, e magari anticipare, i fenomeni emergenti, le opportunità, gli scenari di sviluppo. Invece tutto scivola via, come la classica sabbia fra le dita. Non ci si guarda intorno. Non si esce dal piccolo cortile. E le scelte, quando avvengono, fanno capo a gruppi ristretti. La capacità di visione, programmazione, discussione (anche pubblica) appartengono a un passato che si allontana sempre più. La città intanto è assente. E quel poco che è rimasto dei partiti sembra più impegnato a organizzare dibattiti autoreferenziali sullo sviluppo, ma dimenticando i temi e gli interlocutori fondamentali, chiamando intorno al tavolo le solite dieci-quindici persone che da anni e anni si ripresentano, sempre uguali a se stesse, come se il tempo non fosse mai trascorso.

Nei giorno scorsi, per esempio, c’è stato un solo commento pubblico, su Facebook, in vista del rinnovo del Consiglio di amministrazione dell’Università del Piemonte Orientale. Il termine per la candidature è fissato alle ore 12 del 23 settembre. In consiglieri sono sette in totale, di cui tre esterni, espressione dei territori (Alessandria, Vercelli, Novara) su cui è nata e cresciuta l’università. La rappresentanza alessandrina è stata affidata, nel mandato che si chiude, a Fabrizio Palenzona che non è più ricandidabile. Chi arriverà al suo posto? Mentre le voci si rincorrono non passa giorno che qualcuno ammetta candidamente di non avere mai sentito parlare di questa scadenza. L’Ateneo ha seguito la prassi in modo burocratico, senza stimolare la discussione, almeno sul territorio alessandrino, più di tanto. Amministratori pubblici, parti sociali, associazioni paiono essere estranee al confronto, tranne pochissime persone. Eppure quella dei consiglieri del territorio dovrebbe essere una scelta che nasce da un ampio confronto pubblico di tutti gli ‘azionisti’ (amministrazioni locali, enti economici, associazioni di categoria, parti sociali) perché è nel consiglio di amministrazione che vengono prese le decisioni che contano. Infatti il cda svolge «le funzioni di indirizzo strategico dell’Ateneo e vigila sulla sostenibilità finanziaria delle attività». E il futuro di Alessandria passa proprio da lì.