L’eterna Generación Dorada e Leon che si permetteva di sognare [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Ad agosto del 2012, durante le Olimpiadi di Londra sul Twitter avevo scritto di “ultimo tango della Generación Dorada”. Quattro anni dopo, durante le Olimpiadi di Rio sul GrandeTaxiGiallo (il mio vecchio blog) avevo scritto di “ultimo saluto sportivo alla Generación Dorada”.

Come i bambini beccati (con le dita nella marmellata si diceva un tempo): non lo faccio più, promesso!

Il prossimo anno alle Olimpiadi di Tokyo probabilmente in campo ci sarà ancora Luis Scola, classe 1980, ormai il simbolo di una squadra di basket che nel tempo è diventata “dream team” tanto quanto quello originario, gli Stati Uniti del 1992, quelli delle Olimpiadi di Barcellona con Magic Johnson, Michael Jordan, Larry Bird eccetera eccetera eccetera. Con la non piccola differenza che il Dream Team ha fatto meraviglie per quindici giorni, loro da quasi vent’anni, senza dare alcun segno di smettere.

Ultima, per ora, dimostrazione dell’unicità di questa squadra ai mondiali di basket giocati in Cina, con gli argentini di molto sfavoriti e capaci di battere (e mettere a tacere) i serbi che la maggior parte degli osservatori davano come favoriti per la vittoria, poi di raggiungere una finale inattesa, e in fondo ci sta pure che se la sia aggiudicata la Spagna, questa è una storia romantica perdipiù a ritmo di tango.

Quella della squadra di basket che sembra una eterna Generación Dorada ha infatti il fascino di una storia che non arriva mai alla fine, alla sirena del quarto quarto. D’altronde la sua musica naturale è scritta in due quarti appunto come il tradizionale tango, come ‘Volver’.

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Bello il racconto di Carlos Delfino in una recente intervista a ‘L’Ultimo Uomo’, sulla vittoria alle Olimpiadi del 2004: «Era incredibile capire di essere nei migliori ed essere riconosciuti. Salivi su un taxi a Buenos Aires e l’autista ti riconosceva. E questo prima non succedeva: in Argentina si parla di calcio, del dollaro, di calcio e della politica. I giornalisti sportivi, che il 99% del tempo parlavano di calcio, cominciarono a parlare di noi e a farci finire in copertina».

Già, la prima grande vittoria era venuta in finale contro di noi alle Olimpiadi di Atene, anche se un antipasto i ragazzini di quella che tutti adesso conoscono come Generación Dorada l’avevano dato andando a battere gli Usa a casa loro, al mondiale di Indianapolis, prima di sprecare il vantaggio nella finale persa in overtime contro la Jugoslavia (all’ultima apparizione con quel nome). Nel 2002 solo due avevano più di trent’anni (dieci anni dopo saranno in otto): Alejandro Montecchia, mezzo italiano e proprio lui ad affossarci nella finale di Atene, e Hugo Sconochini che da noi ha giocato praticamente tutta la straordinaria carriera.

Strano quel 28 agosto 2004 per il paese sudamericano. Non vincevano un oro olimpico da Helsinki 1952, e in poche ore ne presero due di peso, perché in mattinata Carlitos Tevez aveva segnato il gol della finale che consegnava il titolo alla squadra allenata dal “loco” Bielsa. La sera arrivava la medaglia d’oro del basket dietro ai 25 punti di Scola, ai 17 (in altrettanti minuti) di Montecchia e ai 16 del colossale Manu Ginobili. 

Dopo un torneo iniziato quindici giorni prima rischiando un’altra sconfitta coi “plavi” ora già chiamati “Serbia e Montenegro”, una partita decisa sulla sirena proprio da Ginobili: «Solo Manu – racconta ancora Delfino – poteva segnare quel canestro, e non poteva finire in una maniera più speciale di quella palomita, come un colpo di testa in tuffo nel calcio». D’altronde uno nato nella provincia di Santa Fé non può non citare la “palomita” che è anche il gol più famoso della storia (calcistica) del Rosario Central.

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“Grande Leon, il nostro cuore e la nostra gratitudine sono tutti per te” dice Victor Hugo Morales, il mito dei telecronisti sudamericani (e di Federico Buffa) a commento di quella vittoria. E allora tanti se lo chiedono, chi è Leon?

In Argentina ancora negli anni ottanta non esisteva un vero campionato professionistico nazionale. Esistevano dei campionati regionali che poi qualificavano a una fase finale nazionale. La prima palla a due di un campionato nazionale è del 26 aprile 1985 e la alza proprio il nostro Leon, quello citato da Morales in occasione della vittoria di Atene: Leon Najnudel, apodo “El Ruso”, il russo. Ci lavora da più di vent’anni, da quando l’idea, ai mondiali del Brasile del 1963, primo viaggio all’estero del ventenne Leon, gliel’aveva data l’unico allenatore capace di vincere un campionato europeo alla guida… dell’Egitto (giuro!).

“Paratore arrivava dalla civiltà di Cleopatra, che aveva imparato il basket dagli americani. Ne sapeva un sacco”, dice di lui coach Bianchini.

Nello Paratore, classe 1912, nato al Cairo da italiani, per questo internato durante la seconda guerra mondiale, vince con l’Egitto i campionati europei del 1949. Sono una delle manifestazioni più strane, in un clima da immediato dopoguerra, con l’Unione Sovietica campione uscente che si rifiuta di ospitarli e con iscritte sette squadre di cui le europee come le consideriamo oggi sono solo quattro: Grecia, Turchia, Francia e Olanda affiancate oltre che dai padroni di casa da Siria e Libano. Poi Paratore viene nel suo paese d’origine, allena la nazionale per oltre un decennio, e finisce la carriera portando fino alla A1 quella che era stata la seconda squadra di Roma, la Virtus che passa proprio a Bianchini che ci vince uno scudetto “storico”.

Torniamo a Rio, 1963. Leon ci mette una certa incoscienza da ventenne, va a parlare col grande Paratore e questo gli dice che il basket in Italia è forte per merito del campionato nazionale che si gioca da oltre quarant’anni. Come detto il progetto di Najnudel impiega vent’anni, con una dittatura militare in mezzo, per realizzarsi ma è oggi considerato l’origine della storia delle vittorie della Generación Dorada.

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León Najnudel será recordado por muchas cosas. Por ese corazón tan grande como una pelota de básquet con el que luchó hasta el final contra la leucemia que le habían detectado en noviembre del 96. Por la pasión que ponía para hablar y enseñar todo lo que sabía del deporte que tanto amaba. Por los principios con los que se manejó en la vida… Y, fundamentalmente, porque era un hombre que en estos tiempos de practicismo se permitía soñar

Si permetteva di sognare in questi tempi di concretezza, si legge nel necrologio pubblicato dal Clarín. Perché Leon Najnudel, allenatore di basket, innamorato del basket, sognatore, muore di leucemia nell’aprile del 1998 ed è seppellito nel cimitero israelita di La Tablada, nella grande area metropolitana di Buenos Aires.

Chissà, forse durante la sua vita ha sognato che la nazionale della sua Argentina sarebbe diventata la Generación Dorada, la squadra eterna che da quasi vent’anni continua fare risultati impossibili per chi valuta le cose con la sola concretezza.