Glitch di Giulia Soi [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

Ancora un appuntamento con le Edizioni della Goccia di Davide Indalezio ce con il romanzo Glitch di Giulia Soi dove si narra di Maia, una giornalista in carriera da sempre attratta da Sebastian, il batterista dei Burning Flame, ma che ha scelto di sposare il suo migliore amico Alex, stella del basket italiano. L’in­tricata relazione fra i tre è nata sui banchi di scuola a Pesaro, agli inizi degli anni novanta; tuttavia, dopo quasi vent’anni per Maia, ormai divorziata e in piena crisi d’identità, quel legame particolare ri­mane l’equazione irrisolta della propria vita. L’adolescenza è finita in un’esplosione di traiettorie impazzi­te che lei non è riuscita a tenere insieme. Cos’è andato storto? Cos’ha causato quel dolcissimo, squassante, irrimediabile disastro sentimentale? Che parte ha giocato la musica in tutto ciò? E il ses­so?

Sono molte le domande a cui Maia dovrà rispondere, perché dopo tanti anni la resa dei conti è dietro l’angolo.

Giulia Soi, classe 1979, vive a Roma, dove si è laureata prima in Scienze della Comunicazione e poi in Geografia. Negli ultimi quindici anni ha partecipato alla scrittura di numerosi programmi televisivi, tra cui Prima dell’alba, Emozioni e Sconosciuti. Dal 2018 scrive per la redazione romana di Map Magazine.

È curatrice di Giulia sotto la metro, pagina Facebook sul trasporto capitolino, e su Youtube conduce #siamoserie, rubrica sulle migliori serie televisive. Ama i viaggi, è ginnasta amatoriale ed è voce solista della rock band “Number Station 6”.

Buona lettura

 

 

Mercoledì 21 Aprile 2010

 

 

(Maia)

 

Fuori non piove più.

Fino a un attimo fa, però, pioveva eccome.

Venivano giù quei gavettoni primaverili che entrano in scena all’improvviso al posto di un sole quasi estivo. Quelli che ti sorprendono senza ombrello, ti pugnalano alle spalle e ti infradiciano i capelli, vanificando in un attimo i centocinquanta euro che hai lasciato al parrucchiere – tra taglio, piega e riflessante mogano – perché quei primi capelli bianchi non li veda nessuno oltre te.

«Ma come, anche oggi? Non è possibile!»

Col fiatone, Maia guarda la saracinesca del supermercato della piazza, chiusa senza rimedio davanti a lei.

Sono le nove e, nonostante la corsa, per tre giorni di fila è arrivata tardi a casa e neanche stavolta può fare la spesa. In realtà spesa è una parola forte per lei. Le basterebbe anche solo un po’ di latte per la colazione, ma a quanto pare la vita sta cercando di insegnarle che i ritardatari colazione non la fanno e che lei, per quanto si sforzi, non fa eccezione alle regole della categoria. Strano che non lo abbia ancora capito, visto che è in ritardo dalla nascita: è arrivata cinque giorni dopo la data prevista e alla fine i medici l’hanno dovuta far uscire a forza.

Ci sarà pur stato un motivo se me ne volevo rimanere là dentro in santa pace, Maia non si è ancora stancata di ripeterlo: si vede che sapevo cosa mi aspettava.

Da quel giorno di agosto di trentuno anni prima, Maia vive sfalsata di diversi fotogrammi rispetto al corso naturale degli eventi, che invece arrivano puntuali prima di lei. Ormai non ci bada più: considera persa la sua battaglia e si limita a mangiare, bere, dormire e guadagnare i soldi che le permettano di continuare a mangiare, bere e dormire. Visto, però, che il concetto di mangiare questa sera appare troppo d’avanguardia, non le resta che cercare da bere.

Possibilmente, un gin lemon.

Accanto al supermercato chiuso, c’è il lounge bar con la sua porta a vetri tirata a lucido nonostante l’acquazzone. Maia la spinge ed entra, fregandosene di capelli in disordine, piedi umidi e impermeabile zuppo.

(D’altronde quando il gioco si fa duro, i duri bevono gin lemon)

C’è uno sgabello in disparte, all’angolo del bancone. Sugli scaffali troneggiano un certo numero di bottiglie di Bombay, apparentemente innocue come una cucchiaiata di gelato al puffo. Stimolate da quella vista, le due banconote da venti nel portafoglio di Maia avallano l’ipotesi che il numero dei gin lemon potrebbe aumentare.

«Che ti porto?»

«Un gin lemon, per favore».

Al barman, neanche uno sguardo. Solo la punta del dito indice, laccata di lilla, rivolta con savoir faire verso gli ammiccanti idoli celesti. Passano un paio di tiri di Lucky Strike – per fortuna, quello è uno dei pochi locali rimasti a Pesaro in cui nessuno ti secca se fumi – e un bicchiere pieno si materializza sotto lo sguardo assente di Maia.

«Cinque euro, per favore».

Il sorriso di circostanza del ragazzo è statico e impeccabile, ma purtroppo per lui non succede nulla. Maia sta fissando il cocktail ancora intatto e, a osservare con un briciolo di attenzione in più, tra le sue ciglia si potrebbe scorgere una lacrima pronta a lanciarsi lungo la gota. Il barman non la vede: lui sta semplicemente pensando a come avere i soldi.

Il cliente deve pagare quando viene servito. Questa è la regola numero uno e alla regola numero uno non si fanno eccezioni. Arianna ci si è giocata il posto la settimana scorsa e lui lo sa bene, visto che l’ha rimpiazzata.

Giusto un altro sbuffo di fumo, prima di passare all’attacco del gin lemon: Maia è veloce, ma il barista di più.

Veloce come chi fugge trafelato da un problema che non vuole risolvere, allunga il braccio verso la mano di lei. Un attimo dopo, la sigaretta accesa fra l’indice e il medio di Maia non c’è più. E quando lei va ad aspirare di nuovo, rimane a dir poco interdetta. «Ma… come cazzo hai fatto?»

Una risata e una nuvola di fumo sono le risposte del barman allo stupore di Maia.

«Tu mi dai cinque euro, io ti ridò la sigaretta… No cash, no smoking!» La lacrima di Maia non è ancora svanita, ma si confonde con un sorriso inaspettato. Quella faccia da impunito con la sigaretta in mano ha fatto alla tristezza un effetto migliore di quello del gin. E anche dell’erba, che Maia fumerebbe volentieri più tardi a casa, se solo non avesse finito anche quella.

«Scusami, non avevo assolutamente sentito…»

«Lo so, ma… com’è che dicono? Prima il dovere e poi…» Il ragazzo ammicca in maniera quasi irresistibile.

Maia ha a che fare con lui solo da un paio di minuti, ma sente di essere stata coinvolta in una sorta di tacita sfida. Sente sulla pelle una strana sensazione, un’emozione anonima che si spiegherebbe solo dopo anni di empatia e complicità.

(Con tutto il caos che ha nella mente, non dovrebbe esserci posto per roba del genere. E invece, chissà perché, ce n’è in abbondanza. E la cosa la incuriosisce e la spaventa allo stesso tempo)

Maia sfila dalla borsa un vecchio portafoglio di marca: un tempo era trendy, ma ora è soltanto molto logorato dall’uso e da un’atavica affezione che le impedisce di comprarne uno nuovo. Con finto senso di colpa, estrae una banconota da venti e la appoggia sul bancone: vorrebbe aggiungere a sua volta una frase a effetto, che magari lasci intendere che quel gin lemon non sarà l’unico… o che il resto è mancia… o comunque che lei non è ancora da buttar via e che se vuole due cazzate maliziose le sa ancora mettere in fila, nonostante i trentun anni spiegazzati e la depressione incombente.

Vorrebbe, vorrebbe sul serio. Ma non ci riesce.

Dall’altra parte del bancone c’è chi la fa arrivare in ritardo. Di nuovo.

«Ehm… mi dispiace, non ho monete. Dovrò inventarmi qualche altra cosa per darti il resto…»

Sebbene sulla carta quelle parole un significato onesto ce l’avrebbero, nel ghigno luminoso del barman si legge tutt’altro: Maia prima si affretta a riprendersi la sigaretta e poi si costringe ad aggiungere un’altra domanda, anche solo per evitare che lui dica altro.

«Ma sei nuovo? Non ti ho mai visto».

«Ho fatto qualche turno ogni tanto, ma ufficialmente è il mio terzo giorno di lavoro. Mattia, al tuo servizio».

«Maia, molto piacere».

La stretta di mano tra i due lascia una scossa inequivocabile nelle viscere di Maia. Forse ha sognato tutto, ma le dita di Mattia sembrano essersi soffermate tra le sue in un modo che ha lasciato un certo spazio all’immaginazione.

Qualche metro più in là, una ragazza si avvicina al bancone per chiedere un caffè ristretto e un bicchiere d’acqua: Mattia si allontana per servirla, Maia tira un sospiro di sollievo e si avventa sulle due piccole cannucce nere con fare più disperato di quanto vorrebbe concedersi.

Che accidenti fa la gente normale quando trova il supermercato chiu­so? Va di corsa allo spaccio, al supermercato aperto h24, o dall’indiano all’angolo. Alcuni vanno persino a chiedere due uova alla vicina di casa, ma il punto è che, per rimediare al fatto che in casa non ci sia uno straccio di cena, ci sono tanti posti migliori di un locale con il barman impertinente.

Ravioli al vapore, involtini primavera, una manciata di maki al tonno e al salmone. L’odore invasivo ma confortevole del fritto, della soia e dell’agrodolce. Una sorsata amara di birra cinese ghiacciata al punto giusto. Un cameriere che ti continua a sorridere come una marionetta, anche se non ha capito neanche una parola di quello che gli hai appena detto.

Ecco quello che ci voleva, Maia. Una doccia calda, ci voleva; il divano, la tv in modalità dadaismo puro, il cervello spento e un pacchetto di sigarette. Altro che un gin lemon a base di Bombay, shakerato con inaspettata seduzione e guarnito dalla promessa di guai futuri.

Perché qualsiasi madre lo direbbe, persino quella di Maia: nulla di buono può venire dalla volontà di fare la scema con un ragazzino. Ma l’avrà finito il liceo?

«Mattia, è da tanto che fai il barman?»

«In realtà no… Ma questo locale è di mio fratello e visto che ho mollato la scuola lui ha deciso di darmi un’opportunità».

Mai contraddire il cliente: il cliente ha sempre ragione. Questa è la regola numero due e neanche alla regola numero due si fanno eccezioni, soprattutto se il capo è tuo fratello. Mattia, però, non sente di aver trasgredito più di tanto: non è mica colpa sua, se in questo caso il cliente è distratto. Oltre che molto, molto affascinante.

«Te l’ho detto prima che ho iniziato da poco. Non mi ascolti?»

Maia articola le labbra per pronunciare qualche parola, forse di finto sdegno per le strafottenze di Mattia, ma di nuovo non riesce a dire nulla. Non fa in tempo.

«Maia, guarda che ho capito: tu non vuoi sapere da quanto tempo lavoro, tu vuoi sapere quanti anni ho, vero?»

«Può darsi».

«Tu vuoi sapere se sono maggiorenne, eh?»

Eh, no: quando è troppo, è troppo! Maia strappa con violenza l’ultimo sorso di gin lemon dal bicchiere e poi guarda Mattia negli occhi, un sorriso sguincio all’angolo della bocca.

«In realtà non me ne frega niente se sei maggiorenne oppure no. Però, già che ci siamo, dimmelo: vado in galera perché ti sto rivolgendo la parola o sono salva?»

Con una calma che sembra studiata per quanto è snervante, Mattia prende una bottiglia di vodka ghiacciata da sotto il bancone e ci riempie uno shot.

«Facciamo così,» annuncia, portando il bicchierino a metà della linea immaginaria che unisce il suo sguardo a quello di Maia, «adesso tu provi a indovinare quanti anni ho. Se ce la fai, lo shot è tuo. Altrimenti…»

Sicuro come la morte, se Maia non scopre subito quanti anni ha il ragazzino finirà per impazzire. E non è la classica curiosità delle donne, è proprio lei che non ha mai saputo riconoscere il momento giusto in cui fermarsi.

«Altrimenti cosa? È tuo? Puoi bere in servizio? Ma soprattutto… fai così con tutte le clienti?»

«Solo con quelle che me lo permettono».

Maia si sente avvampare per un miscuglio letale di stizza, incredulità, orgoglio, eccitazione fisica e alcol.

(Come ci è arrivata, a quel punto? E poi, che punto è? Ma soprattutto, faresti bene a chiedertelo, Maia: è meglio indovinare o sbagliare? Quando il cuore batte un po’ troppo forte, il flusso dei pensieri non si sente con chiarezza)

Maia allontana il bicchiere del gin lemon ormai vuoto, estrae una Lucky Strike dal pacchetto sgualcito e la blocca tra i denti. Mentre fa scattare l’accendino un’anomalia nei dintorni del bacino di Mattia le tira fuori le parole di bocca anche troppo velocemente.

«Non ce li hai diciotto anni. Non ce li puoi avere!»

Maia scoppia a ridere come quando, da ragazzina, indovinava le canzoni al primo accordo e al primo tentativo lasciando tutti ogni volta senza parole. Allo stesso tempo, però, finisce per rompere la sottile tensione che ha aleggiato nell’aria fino a quell’istante.

«Allora, l’ho vinto questo shot?»

«Sì, tana per me. Ancora per sei mesi avrò diciassette anni». Mattia abbassa lo sguardo e arrossisce: la sua ingenuità finalmente tradisce l’insicurezza dell’adolescenza. «E, per stasera, non ho più alcuna possibilità di portarti a letto».

Maia spegne la sigaretta nel portacenere e allunga la mano verso lo shot di vodka, ormai suo di diritto.

«Portare a letto… me?»

«Beh, il piano era quello. Ma mi sa che ora è saltato».

(Anche se non sa bene per quale assurdo motivo, Maia di colpo sente risuonare nella mente la voce di Julie Andrews in Tutti in insieme appassionatamente: Quindici anni, quasi sedici: è la più bella età…”. Vecchia megera, quella là. Mettici un anno in più e diventa come per la faccenda della pillola e dello zucchero: ha sempre ragione lei, porca miseria)

Maia fa per bere alla goccia il suo giro gratis di vodka, ma un colpo di tosse inatteso la costringe a sbrodolarsi come una bambina. E, come una bambina, continua a ridere.

Solo che non sa se sta ridendo per vergogna dei suoi trentun anni suonati (o buttati), o perché da un momento all’altro potrebbe prendere a schiaffi quel ragazzino che l’ha messa anche troppo in difficoltà.

Al cliente non si fanno avance, neanche se entra Monica Bellucci. Anzi, soprattutto se entra lei. Questa è la regola numero tre e figurarsi se anche a questa regola si possono fare eccezioni. Nel frangente, però, sembra che il problema neanche si sia posto.

«Ti sembro tanto ridicolo, Maia?»

«No… ma non so come ti è venuto in mente che io potessi ritenere maggiorenne uno con il portachiavi di Funky Layla!»

Mattia si porta la mano alla cintura dei pantaloni e corre a coprire la pupazzetta che ciondola a ogni movimento del bacino. Fosse rimasto in mutande, si sarebbe vergognato di meno.

«E tra l’altro, non so come ti è venuto in mente che io potessi andare a letto con uno che ha quel portachiavi…Voglio dire, ti immagini la scena? Io sto lì, magari già nuda… Inizio a tirarti giù la zip dei jeans, ti passo le mani sui fianchi per toglierteli e poi trovo una cosa dura. Solo che non la trovo nel posto dove me l’aspettavo! Allora mi fermo, controllo meglio, ti metto una mano in tasca. E cosa trovo? Funky Layla?! Ma dai! Cosa dovrei fare, secondo te, a questo punto? Raccogliere i vestiti e scappare a gambe levate con il dubbio che forse sei gay… o piuttosto iniziare a cantare insieme a te Love me baby! Kiss me baby! Sing my song with me! Eh?!»

Mattia rigira nervosamente lo strofinaccio bagnato fra le mani e lo tira con rabbia sul bancone. «Non è mio. È della mia sorellina… è lei che sente le canzoni di quella deficiente! Ci teneva tanto che lo portassi io e allora l’ho fatta contenta…»

«Ehi, tranquillo! Mica ti devi giustificare! Non verrei a letto con te neanche se sentissi i dischi del mio cantante preferito… e comunque, per la cronaca, questa di tua sorella è la cosa più carina che tu abbia detto da quando abbiamo iniziato a parlare».

Mattia abbozza un sorriso, mentre Maia gli strizza l’occhio e allunga la mano per farsi dare la pupazzetta bionda e dinoccolata. Lui la stacca dalla cintura e gliela passa in modo volutamente dissimulato, nel disperato intento di non far capire a Maia quanto si senta minorenne.

D’altronde, ma questo a Mattia non può venire in mente lì per lì, solo un minorenne avrebbe la strafottenza, il coraggio o l’ingenuità di sperare che portare a letto una donna adulta possa essere facile.

«Dimmi una cosa, però».

«Cosa?» Quanto volentieri fumerebbe una sigaretta in quel momento, Mattia non saprebbe descriverlo; quello che invece sa benissimo è che per le sigarette non c’è una regola, ma direttamente il licenziamento.

«È la pazzia del giorno o provi a portarti a letto tutte le zitelle acide che si siedono a questo bancone?»

No, ci provo solo con quelle strafighe come te. Anche se, a essere sincero, non è che contassi di riuscirci subito; mi sarebbe bastato rimanere a parlare con te fino alla chiusura, magari bevendo a scrocco alla faccia dei colleghi, del capo fratello e anche del resto del mondo…

Ecco, persino Mattia arriva a capire che una frase del genere è meglio tenerla per sé: Maia ci metterebbe un secondo ad alzarsi di scatto, girare sui tacchi – a spillo, per la cronaca – e sparire al di là della porta a vetri.

O magari no?

«Vedila così,» ammette Mattia alla fine, con un ultimo, inguaribile guizzo guascone, «ho un debole per le donne più grandi e un divieto categorico di provarci sul lavoro. Ma come si fa a frenare certe attrazioni scatenate?»

Maia scuote la testa, spinge i capelli all’indietro con più teatralità di quello che avrebbe voluto e scola le ultime gocce della vodka che, per colpa della tosse, poco prima ha lasciato nel bicchierino.

«Perdonami, c’è una cosa che ancora mi sfugge. Come pensavi di riuscirci?»

Mattia sfila con due dita il bicchierino dalla mano di Maia e, come neanche Houdini avrebbe saputo fare, lascia le stesse due dita intrecciate a quelle di lei. La fissa, quasi offeso.

«E perché non dovrei riuscirci? Dimmelo tu, perché nemmeno io riesco a capire una cosa».

«E sarebbe?»

«Tu canti le canzoni di Funky Layla: ma quanti anni hai, dieci?»

(Maia vorrebbe ridere assieme a Mattia, farsi beffe della sua spavalderia o, ancora meglio, buttare giù insieme a lui un altro shot. Uno qualsiasi, le va bene tutto: ci sarebbe da brindare alla prima sera dopo chissà quanto tempo in cui lei non si sente irrisolta e fallita come una serie tv chiusa alla prima stagione)

«Sono una giornalista di musica. Ovvio che la conosco, Funky Layla. Mi pagano per sapere chi è, anche se mi fa ribrezzo l’idea che possa esistere una baby star per bambini delle elementari».

«Ah, davvero?»

A prescindere dalla data di nascita, Maia subisce il carisma magnetico del ragazzino. Subisce la fisicità da efebo che si nasconde sotto la maglietta aderente. Subisce quelle dita rovinate e acerbe, che non si sono ancora staccate dalle sue. E legate a quelle dita sono le fantasie che Maia accarezza tra sé; le accarezza molto più di quanto le sembri lecito. Realizzare questo dettaglio, sentirsi in colpa e farsi anche un filino pena da sola è un attimo.

Maia scivola giù dallo sgabello dove è stata appollaiata fino a quel momento e si gira per infilarsi il cappotto.

«Ehi, che fai? Te ne vai perché ho esagerato? Guarda che non dicevo proprio sul serio».

«No, eh? Cioè, come funziona? Dicevi al cinquanta per cento sul serio e al cinquanta per finta?»

«Ecco, lo sapevo. Ti sei arrabbiata. Adesso non tornerai più e il capo se la prenderà con me».

«Beh, se è questo che ti preoccupa, potresti smettere di infastidire le clienti con certe proposte».

Mattia accusa il colpo, inizia a riporre bicchieri e a pulire il bancone, ma prima che Maia faccia il primo passo verso la porta del lounge bar non rinuncia ad un’ultima stoccata.

«Ma io pensavo…»

Maia guarda Mattia con un’aria di malcelata e compiaciuta sorpresa.

Lo sguardo, però, dura un istante.

«Beh, stai attento a quello pensi. E ora taci prima che decida di non tornare davvero più qui dentro».

«Allora lo vedi? Te ne vai per colpa mia!» Mattia si lascia scappare una risatina sconsolata, perché a quel punto non sa cos’altro potrebbe fare.

«Facciamo che me ne vado perché domani mi aspetta una giornataccia».

(Ad aspettarla a casa, insieme a una bottiglia di gin Bombay, c’è la recensione dell’ultimo album dei Burning Flame. La consegna è prevista per due giorni dopo e Maia non ha assolutamente voglia di affrontare la solita stitica, inevitabile trafila. Senti le tracce, leggi le scartoffie della casa discografica, badi bene a scrivere qualcosa di simpatico, qualcosa di antipatico e qualcosa che faccia credere agli altri che tu sì, che ne capisci di musica. Poi consegni il pregiato manufatto e aspetti che i fan del gruppo si incazzino con te, perché tanto qualcosa che secondo loro è sbagliato e sacrilego sicuramente ce l’hai messo. Ecco: questo è quanto, anche se quando si tratta dei Burning Flame il tutto va moltiplicato al quadrato. Bel mestiere che si è scelta, Maia. Se qualcuno glielo avesse spiegato prima, magari quando aveva diciotto o vent’anni, probabilmente avrebbe tentato il tutto per tutto con un ammaliante concorso alle Poste)

«Allora… te ne vai perché devi lavorare?»

«No, perché devo divorziare».